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Distribuzione digitale
4 Aprile 2019
- Distribuzione
Riassunto: In Germania, al termine di un contratto di distribuzione, gli intermediari di una rete di distribuzione (in particolare, i distributori/franchisee) possono chiedere un’indennità al proprio produttore/fornitore, se si configura una fattispecie analoga a quella dell’agente commerciale. Tali condizioni sussistono se l’intermediario è integrato nella rete commerciale del fornitore ed è obbligato a trasferire il proprio portafoglio clienti al fornitore, cioè a trasmettere i dati dei propri clienti in modo che il fornitore possa immediatamente e senza ulteriori indugi sfruttare i vantaggi del portafoglio clienti al termine del contratto. Una recente decisione giudiziaria mira ora ad estendere il diritto all’indennità del distributore a casi in cui il fornitore abbia in qualche modo beneficiato del rapporto commerciale con il distributore, anche nel caso in cui il distributore non abbia fornito i dati dei clienti al fornitore. Questo articolo illustra tale novità e fornisce suggerimenti su come superare le incertezze emerse a seguito di questa nuova decisione.
Un tribunale tedesco ha recentemente ampliato il diritto del distributore all’indennità di fine rapporto: i fornitori potrebbero dover pagare l’indennità ai propri distributori autorizzati anche nel caso in cui questi ultimi non fossero obbligati a trasferire la propria clientela al fornitore. Al contrario, potrebbe essere sufficiente il conseguimento di un qualsiasi avviamento – inteso come vantaggi sostanziali che, a seguito della cessazione del rapporto, il fornitore possa derivare dalla relazione commerciale con il distributore, indipendentemente da che cosa le parti abbiano stipulato nell’accordo di distribuzione.
Questa decisione potrebbe influire su tutti i tipi di business in cui i prodotti siano venduti tramite distributori (e franchisee, vedi sotto) – in particolare, quindi, sul commercio al dettaglio (soprattutto per quanto riguarda prodotti di elettronica, cosmetica, gioielleria e talvolta anche moda), sul settore automobilistico e sul commercio all’ingrosso. I distributori sono imprenditori autonomi e indipendenti i quali vendono e promuovono i prodotti
- stabilmente ed in nome proprio (differentemente dagli agenti commerciali),
- per proprio conto (differentemente dagli agenti commissionari),
- perciò sopportando il rischio ed i cui margini di profitto – per contro – sono piuttosto alti.
Nel diritto tedesco i distributori sono meno protetti rispetto agli agenti commerciali. Tuttavia, anche i distributori e gli agenti commissionari (vedi qui) hanno diritto ad ottenere un’indennità alla cessazione del contratto, qualora sussistano due prerequisiti:
- il distributore o agente commissionario sia integrato nella rete di vendita del concedente/fornitore (più di un semplice rivenditore) e
- sia obbligato (contrattualmente o di fatto) ad inoltrare al fornitore i dati della clientela durante o al termine dell’esecuzione del contratto (Corte Federale tedesca, decisione del 26 novembre 1997, R.G. n. VIII ZR 283/96).
Ora, il Tribunale Regionale di Norimberga-Fürth ha stabilito che il secondo prerequisito sussiste già se il distributore ha procurato un avviamento al concedente:
“… l’unico fattore decisivo, ai fini di un’applicazione analogica, è se il convenuto (il concedente) ha tratto beneficio dalla relazione commerciale con l’attore (distributore). …
… il concedente deve corrispondere un’indennità se ha un “avviamento”, ossia una giustificata aspettativa di profitto dalle relazioni commerciali con la clientela procurata dal distributore.”
(cfr. decisione del 27 novembre 2018, R.G. n. 2 HK O 10103/12).
Al fine di giustificare tale estensiva applicazione, il tribunale ha fatto riferimento in via astratta alle conclusioni dell’avvocato generale della Corte UE nel caso Marchon/Karaszkiewicz, rese il 10 settembre 2015. Tale caso, tuttavia, non concerneva distributori, bensì il diritto all’indennità dell’agente commerciale, in particolare il concetto di “nuovi clienti” ai sensi della Direttiva 86/653/EEC sugli agenti commerciali.
Nel presente caso, secondo il tribunale, è sufficiente che il fornitore abbia sul proprio computer i dati sui clienti procurati dal distributore e possa fare liberamente uso degli stessi. Altre ipotesi in cui potrebbe sorgere il diritto del distributore all’indennità, persino a prescindere dai dati concreti sulla clientela, sarebbero casi in cui il fornitore rilevi il negozio dal distributore e i clienti conseguentemente continuino a visitare proprio quel negozio anche dopo che il distributore lo ha lasciato.
Consigli pratici:
1. La decisione rende l’inquadramento giuridico dei distributori / franchisee meno chiaro. L’interpretazione estensiva del tribunale, tuttavia, deve essere vista alla luce della giurisprudenza della Corte Federale: ancora nel 2015, la Corte ha negato il diritto all’indennità ad un distributore, contestando la mancanza del secondo requisito, in quanto il distributore non era obbligato a trasferire i dati sulla clientela (decisione del 5 febbraio 2015, R.G. n. VII ZR 315/13, facendo seguito alla propria precedente decisione nel caso Toyota del 17 aprile 1996, R.G. n. VIII ZR 5/95). Inoltre, la Corte Federale ha negato ai franchisee il diritto all’indennità qualora il franchising abbia ad oggetto un business anonimo di massa e la clientela continui ad essere clientela regolare soltanto in via di fatto (decisione del 5 febbraio 2015, R.G. n. VII ZR 109/13 nel caso della catena di panetterie “Kamps”). Resta da vedere come si evolverà questa giurisprudenza.
2. In ogni caso, prima di entrare nel mercato tedesco, i fornitori devono valutare se intendano assumersi il rischio di dover pagare un’indennità alla cessazione del contratto.
3. Lo stesso vale per i franchisor: i franchisee saranno probabilmente in grado di far valere il diritto ad un’indennità sulla base dell’applicazione analogica della normativa sull’agenzia commerciale. Fino ad ora, la Corte Federale ha negato il diritto all’indennità del franchisee caso per caso, lasciando così aperta la questione se i franchisee possano in via generale far valere un tale diritto (cfr. ad esempio la decisione del 23 luglio 1997, R.G. n. VIII ZR 134/96 nella causa sui negozi Benetton). Nondimeno, i tribunali tedeschi potrebbero probabilmente riconoscere il diritto all’indennità nel caso del franchising distributivo (in cui il franchisee compra i prodotti dal franchisor), qualora la situazione sia simile alla distribuzione e all’agenzia commerciale. Questo potrebbe essere il caso in cui il franchisee sia stato incaricato di distribuire i prodotti del franchisor e solo il franchisor abbia, al termine del contratto, diritto ad accedere ai nuovi clienti acquisiti dal franchisee durante il contratto (cfr. Corte Federale tedesca, decisione del 29 aprile 2010, R.G. n. I ZR 3/09, Joop). Nessun diritto all’indennità, tuttavia, può essere fatto valere se
- il franchise ha ad oggetto un business anonimo di massa e i clienti continuano ad essere regolari soltanto di fatto (decisione del 5 febbraio 2015, nella causa sulla catena di panetterie “Kamps”) o
- nei franchising di produzione (contratti di imbottigliamento, ecc.), in cui il franchisor o titolare della licenza non opera nello stesso identico settore dei prodotti distribuiti dal franchisee / licenziatario (decisione del 29 aprile 2010, R.G. n. I ZR 3/09, Joop).
4. Nel diritto tedesco, il diritto all’indennità dei distributori – o, potenzialmente, dei franchisee – può ancora essere escluso:
- scegliendo di applicare al contratto un altro diritto sostanziale che non preveda un’indennità;
- obbligando il fornitore a bloccare, non usare e, se necessario, cancellare i dati della clientela alla cessazione del contratto (Corte Federale tedesca, decisione del 5 febbraio 2015, R.G. n. VII ZR 315/13: “fatte salve le disposizioni riportate all’articolo [●] sotto, il fornitore deve bloccare i dati forniti dal distributore dopo che sarà terminata la partecipazione del distributore al servizio clienti, deve cessare di utilizzarli e, su richiesta del distributore, deve cancellarli.”). Sebbene tale disposizione contrattuale sembri essere diventata irrilevante alla luce della decisione del Tribunale di Norimberga sopraccitata, il Tribunale non ha fornito alcun argomento sul perché la consolidata giurisprudenza della Corte Federale non debba trovare più applicazione;
- pattuendo espressamente l’esclusione del diritto all’indennità, il che, tuttavia, potrebbe funzionare solo qualora (i) il distributore operi al di fuori dello SEE e (ii) non sussista una norma locale inderogabile che preveda tale indennità (si veda l’articolo qui).
5. Inoltre, se il fornitore accetta deliberatamente di pagare l’indennità in cambio di un solido portafoglio clienti con una quantità di dati potenzialmente utilizzabili in modo significativo (in conformità con il Regolamento UE sulla Protezione Generale dei dati), può pattuire con il distributore il pagamento di “quote d’ingresso” (“entry fees”), al fine di mitigare il peso della propria obbligazione. Il pagamento di tali quote d’ingresso o oneri contrattuali potrebbe essere posticipato fino alla cessazione del contratto e successivamente compensato con il diritto all’indennità del distributore.
6. L’indennità di fine rapporto del distributore viene calcolata sulla base del margine di guadagno conseguito con nuovi clienti apportati dal distributore o con clienti già esistenti con cui il distributore abbia sensibilmente sviluppato gli affari. Il calcolo esatto può essere estremamente complesso ed i tribunali tedeschi applicano differenti metodi. In totale, l’indennità non può superare la media dei margini annualmente conseguiti dall’agente con tali clienti negli ultimi anni.
According to the well-established jurisprudence of the Spanish Supreme Court, a distributor may be entitled to compensation for clientele if article 28 of the Agency Law is applied analogically (the “inspiring idea“). This compensation is calculated for the agent based on the remunerations received in the last five years.
In a distribution contract, however, there are no “remunerations” such as those received by the agent (commissions, fixed amounts or others), but “commercial margins” (differences between the purchase and resale price). The question is, then, what magnitude to consider for the clientele compensation in a distribution contract: either the “gross margin” (the aforementioned difference between the purchase price and the resale price), or the “net margin” (that same difference but deducing other expenses and taxes in which the distributor had incurred in).
The conclusion until now seemed to be to calculate the compensation of the distributor from his “gross margins” since this is a magnitude more comparable to the “remuneration” of the agent: other expenses and taxes of the distributor could not be deduced in the same way as in an agency contract neither expenses and taxes were deduced.
The Supreme Court (November 17, 1999) had pointed out that in order to calculate compensation for clients “it is more appropriate to consider it as a gross contribution, since with it the agent must cover all the disbursements of its commercial organization“. In addition, the “earnings obtained” “do not constitute remuneration in the same sense” (October 21, 2008), given that such “benefits“, “belong to the internal scope of the agent’s own organization” (March 12, 2012).
Recently, however, the judgment of the Supreme Court of March 1, 2017 (confirmed by another of May 19, 2017) considers that the determination of the amount of clientele compensation in a distribution contract cannot be based on the “gross margins” obtained by the distributor, but in the “net margin”. To reach this conclusion, the Court refers to a judgment of the same court of 2016 and to others of 2010 and 2007.
Does this imply a change in the case-law? In my opinion, this reading that the Supreme makes is not correct. Let’s see why.
In the judgment of March 2017, the disjunctive between gross or net margin is mentioned in the Second Legal Argument and refers to the ruling of 2016.
In that judgment of 2016 it was said that although in another of 2010 it was not concluded whether the calculation had to be made on gross or net margins, in a previous one of 2007, it was admitted that what was similar to the remuneration of the agent was the net profit obtained by the distributor (profits once deduced expenses and taxes) and not the margin that is the difference between purchase and resale prices.
Now, in my opinion, in the judgment of March 2017 the Supreme Court is referring in last instance to the judgement 296/2007 for something that the latter did not say. In 2007, the Supreme Court did not quantify clientele compensation, but rather damages. More specifically, and after stating that “the compensation for customers must be requested clearly in the lawsuit, without confusion or ambiguity“, the Court concluded that the Chamber “must resolve what corresponds according to the terms in which the debate was raised…in the initial lawsuit. And since…an indemnity of damages was interested mainly based on the time that the relationship had lasted…the solution more adjusted to the jurisprudence of this Court…consists in fixing as indemnification of damages an amount equivalent to the net benefits that [were] obtained by the distribution of the products…during the year immediately prior to the termination of the contract“. Therefore, in that the judgment of 2007 the Court did not decide on clientele compensation, but on damages.
In this way, the conclusion reached in 2007 to calculate compensation for damages on net margins, was transferred without further analysis to 2016 but for the calculation of clientele compensation. This criterion is now reiterated in the judgments of 2017 almost automatically.
In my opinion, however, and despite the jurisprudential change, the thesis that should prevail is that in order to apply analogically clientele compensation in distribution contracts, the magnitude equivalent to the “remuneration” of the agent is the “gross margin” obtained by the distributor and not its “net margin”: it does not make much sense that if the analogy is applied to recognize the clientele compensation to a distributor, it is deducted from its gross margins amounts to reach its margin or net profit. The agent also has his expenses and also pays his taxes starting from his “remunerations” and nothing in Directive 86/653/EEC nor in the Agency Contract Act allows to deduce such magnitudes to calculate his clientele compensation. In my opinion, therefore, and in line with this, distributors should be equal: the magnitudes that could be compared should be the (gross) retributions of the agent with the (gross) margins of the distributor (i. e. the difference between purchase and resale price).
In conclusion, judgments of March 1 and May 19, 2017 insist on what I consider a prior mistake and generate additional confusion to an issue that has already been discussed: the analogical application of clientele compensation to the distribution contracts and the calculation method.
Updating Notice (January 27, 2020)
In a recent Order (“Auto”) of the Supreme Court of November 20, 2019 (ATS 12255/2019 of inadmissibility of an appeal), the Court has had occasion to return to this matter and to confirm the criteria of the last jurisprudence: that in the distribution contracts, the magnitude to consider to apply the analogy and calculate the goodwill indemnity are the “net margins”.
In this procedure, a distributor appealed the decision of the Provincial Court of Barcelona that recognized compensation based on net margins and not gross margins. Said distributor requested the Supreme Court to annul said judgment on the grounds that it was taken following the latest jurisprudence, erroneous according to previous one in the appellant’s opinion.
The Supreme Court, however, seems to confirm that, contrary to the thesis that I defended above in this Post, « there is no alleged error in the most recent jurisprudence in the analogical interpretation of art. 28.3 of the Agency Law for the distribution contract, nor, therefore, the need to review the most recent jurisprudence on the subject ». Consequently, if the Supreme Court does not review its latest jurisprudence and considers that the judgment that applied the net margins was acceptable, we must consider that the magnitude to be considered in the compensation for clientele in distribution contracts is that of the net margins and not gross margins
With this decision it seems (or just “its seems”?), therefore, that the Court settles the discussion that, however and in my opinion, will nevertheless continue to rise to numerous discussions.
Quick summary – Under Swiss law, a distributor may be entitled to a goodwill indemnity after termination of a distribution agreement. The Swiss Supreme Court has decided that the Swiss Code of Obligations, which provides commercial agents with an inalienable claim to a compensation for acquired customers at the end of the agency relationship, may be applied by analogy to distribution relationships under certain circumstances.
In Switzerland, distribution agreements are innominate contracts, i.e., agreements which are not specifically governed by the Swiss Code of Obligations (“CO”). Distribution agreements are primarily governed by the general provisions of Swiss contract law. In addition to that, certain provisions of Swiss agency law (articles 418a et seqq. CO) may be applied by analogy to distribution relationships.
Particularly with regard to the consequences of a termination of a distribution agreement, the Swiss Supreme Court has decided in a leading case of 2008 (BGE 134 III 497) concerning an exclusive distribution agreement that article 418u CO may be applied by analogy to distribution agreements. Article 418u CO entitles commercial agents to a goodwill indemnity (sometimes also referred to as “compensation for clientele“) at the end of the agency relationship. The goodwill indemnity serves as a mean to compensate an agent for “surrendering” its customer base to the principal upon termination of the agency relationship.
The assessment whether a distributor is entitled to a goodwill indemnity consists of two stages: In a first stage, it is necessary to analyse whether the requirements stipulated by the Swiss Supreme Court for an analogous application of article 418u CO to the distribution relationship at stake are met. If so, it must be analysed, in a second stage, whether all requirements for a goodwill indemnity set forth in article 418u CO are fulfilled.
Application by analogy of article 418u CO to the distribution agreement
An analogous application of Article 418u CO to distribution agreements requires that the distributor is integrated to a large extent into the supplier’s distribution organisation. Because of such strong integration, distributors must find themselves in an agent-like position and dispose of only limited economic autonomy.
The following criteria indicate a strong integration into the supplier’s distribution organisation:
- The distributor must comply with minimum purchase obligations.
- The supplier has the right to unilaterally change prices and delivery terms.
- The supplier has the right to unilaterally terminate the manufacturing and distribution of productscovered by the agreement.
- The distributor must comply with minimum marketing expenditure obligations.
- The distributor is obliged to maintain minimum stocks of contract products.
- The distribution agreement imposes periodical reporting obligations (e.g., regarding achieved sales and activities of competitors) on the distributor.
- The supplier is entitled to inspect the distributor’s books and to conduct audits.
- The distributor is prohibited from continuing distributing the products following the end of the distribution relationship.
The more of these elements are present in a distribution agreement, the higher the chance that article 418u CO may be applied by analogy to the distribution relationship at stake. If, however, none or only a few of these elements exist, article 418u CO will most likely not be applicable and no goodwill indemnity will be due.
Requirements for an entitlement to a goodwill indemnity
In case an analogous application of article 418u CO can be affirmed, the assessment continues. It must then be analysed whether all requirements for a goodwill indemnity set forth in article 418u CO are met. In that second stage, the assessment resembles the test to be carried out for “normal” commercial agency relationships.
Applied by analogy to distribution relationships, article 418u CO entitles distributors to a goodwill indemnity in cases where four requirements are met:
- Considerable expansion of customer base by distributor
First, the distributor’s activities must have resulted in a “considerable expansion” of the supplier’s customer base. The distributor’s activities may not only include targeting specific customers, but also building up a new brand of the supplier.
Due to the limited case law available from the Swiss Supreme Court, there is legal uncertainty as to what “considerable expansion” means. Two elements seem to be predominant: on the one hand the absolute number of customers and on the other hand the turnover achieved with such customers. The customer base existing at the beginning of the distribution relationship must be compared to the customer base upon termination of the agreement. The difference must be positive.
- Supplier must continue benefitting from customer base
Second, considerable benefits must accrue to the supplier even after the end of the distribution relationship from business relations with customers acquired by the distributor. That second requirement includes two important aspects:
Firstly, the supplier must have access to the customer base, i.e., know who customers are. In agency relationships, this is usually not an issue since contracts are concluded between customers and the principal, who will therefore know about the identity of customers. In distribution relationships, however, knowledge of the supplier about the identity of customers regularly requires a disclosure of customer lists by the distributor, may it be during or at the end of the distribution relationship.
Secondly, there must be some loyalty of the customers towards the supplier, so that the supplier can continue doing business with such customers after termination of the distribution relationship. This is the case, e.g., if retailers acquired by a former wholesale distributor continue buying products directly from the supplier once the relationship with the wholesale distributor ended. Furthermore, a supplier may also continue benefitting from customers acquired by the distributor if it can make profitable after-sales business, e.g., by supplying consumables, spare parts and providing maintenance and repair services.
Swiss case law distinguishes between two different kinds of customers: personal customers and real customers. The former are linked to the distributor because of a special relationship of trust and will usually remain with the distributor once the distribution relationship comes to an end. The latter are attached to a brand or product and normally follow the supplier. In principle, only real customers may give rise to a goodwill indemnity.
The development of the supplier’s turnover after the end of a distribution relationship may serve as an indication for the loyalty of customers. A sharp downfall of the turnover and a need on the part of the supplier (or new distributor) to acquire new or re-acquire former customers suggests that customers are not loyal, so that no goodwill indemnity would be due.
- Equitability of goodwill indemnity
Third, a goodwill indemnity must not be inequitable. The following circumstances could render a goodwill indemnity inequitable:
- The distributor was able to achieve an extraordinarily high margin or received further remunerations that constitute a sufficient consideration for the value of customers passed on to the supplier.
- The distribution relationship lasted for a long time, so that the distributor already had ample opportunity to economically benefit from the acquired customers.
- In return for complying with a post-contractual non-compete obligation, the distributor receives a special compensation.
In any event, courts dispose of a considerable discretion when deciding whether a goodwill indemnity is equitable.
- Termination not caused by distributor
Fourth, the distribution relationship must not have ended for a reason attributable to the distributor.
This will notably be the case if the supplier has terminated the distribution agreement because of a reason attributable to the distributor, e.g., in case of a breach of contractual obligations or an insufficient performance by the distributor.
Furthermore, no goodwill indemnity will be due in case the distributor has terminated the distribution agreement itself, unless such termination is justified by reasons attributable to the supplier (e.g., a violation of the exclusivity granted to the distributor by the supplier).
A goodwill indemnity cannot only be due in case a distribution agreement for an indefinite period of time ended due to a notice of termination, but also in case of the expiry respectively non-renewal of a fixed-term distribution relationship.
Quantum of a goodwill indemnity
Where article 418u CO is applicable by analogy to a distribution relationship and all above-mentioned requirements for a goodwill indemnity are met, the indemnity payable to the distributor may amount up to the distributor’s net annual earnings from the distribution relationship, calculated as the average earnings of the last five years. Where the distribution relationship lasted shorter, the average earnings over the entire duration of the distribution relationship are decisive.
In order to calculate the net annual earnings, the distributor must deduct from the income obtained through the distribution relationship (e.g., gross margin, further remunerations etc.) any costs linked to its activities (e.g., marketing expenses, travel costs, salaries, rental fees etc.). A loss-making business cannot give rise to a goodwill indemnity.
In case a distributor marketed products from various suppliers, it must calculate the net annual earnings on a product-specific basis, i.e., limited to the products from the specific supplier. The distributor cannot calculate a goodwill indemnity on the basis of its business as a whole. Fixed costs must be allocated proportionally, to the extent that they cannot be assigned to a specific distribution relationship.
Mandatory nature of the entitlement to a goodwill indemnity
Suppliers regularly attempt to exclude goodwill indemnities in distribution agreements. However, if an analogous application of article 418u CO to the distribution agreement is justified and all requirements for a goodwill indemnity are met, the entitlement is mandatory and cannot be contractually excluded in advance. Any such provisions would be null and void.
Having said that, specific provisions in distribution agreements dealing with a goodwill indemnity, as, e.g., contractual provisions that address how the supplier shall compensate the distributor for acquired customers, still remain relevant. Such rules could render an entitlement to a goodwill indemnity inequitable.
Are insurers liable for breach of the GDPR on account of their appointed intermediaries?
Insurers acting out of their traditional borders through a local intermediary should choose carefully their intermediaries when distributing insurance products, and use any means at their disposal to control them properly. Distribution of insurance products through an intermediary can be a fast way to distribute insurance products and enter a territory with a minimum of investments. However, it implies a strict control of the intermediary’s activities.
The reason is that Insurers in FOS can be held jointly liable with the intermediary if this one violates personal data regulation and its obligations as set by the GDPR (Regulation 2016/679 of 27 April 2016 on the protection of natural persons with regard to the processing of personal data and on the free movement of such data).
In a decision dated 18 July 2019 , the CNIL (Commission Nationale Informatique et Libertés), the French authority in charge of personal data protection rendered a decision against ACTIVE ASSURANCE, a French intermediary, for several breaches of the GDPR. The intermediary was found guilty and fined EUR 180,000 for failing to properly protect the personal data of its clients. Those were found easily accessible on the web by any technician well versed in data processing. Moreover, the personal access codes of the clients were too simple and therefore easily accessible by third parties.
Although in this particular case insurers were not fined by the CNIL, the GDPR considers that they can be jointly liable with the intermediary in case of breach of personal data. In particular, the controller is liable for any acts of the processor he has appointed, this one being considered as a sub-contractor (clauses 24 and 28 of the GDPR).
This illustrates the risks to distribute insurance products through an intermediary without controlling its activities. Acting through intermediaries, in particular for insurance companies acting from foreign EU countries in FOS under the EU Directive on freedom of insurance services (Directive 2016/97 of 20 January 2016 on insurance distribution) requires a strict control through enacting contractual dispositions whereas are defined:
- a clear distribution of the duties between insurer and distributor (who is controller/joint controller/processor ?) as regards technical means used for protecting personal data (who shall do/control what ?) and legal requirements (who must report to the authorities in case of breach of security/ who shall reply to requests from data owners?, etc.);
- the right of the insurer to audit the distributors’ technical means used for this protection at any time during the term of the contract. In addition to this, one should always keep in mind that this audit should be conducted efficiently by the insurer at regular times. As Napoleon rightly said: “You can govern from afar, but you can only administer closely”.
Distribuzione digitale – Quale strategia?
L’importanza della distribuzione via internet è aumentata nel corso degli anni, così come le restrizioni poste all’interno di contratti di distribuzione. Soprattutto i produttori di marchi rinomati mirano tanto a trarre vantaggio dalle opportunità del mercato digitale, quanto a preservare l’immagine dei loro prodotti. Conseguentemente, è frequente l’imposizione di diversi tipi di restrizioni sui distributori, come emerge dal seguente grafico (fonte: Commissione Europea, Relazione finale sull’indagine settoriale sul commercio elettronico, 10.05.2017):
Tali misure compaiono nella distribuzione selettiva, in quella esclusiva, nel franchising e nella distribuzione aperta. Alcune misure perseguono interessi legittimi, come quello di assicurare una distribuzione di alta qualità, mentre altre misure possono concretizzarsi in restrizioni anticoncorrenziali del territorio e del prezzo di rivendita. Mentre le restrizioni nel business online sono cresciute, la loro regolamentazione segue a rilento: la Corte di giustizia UE ha posto una prima pietra miliare nel 2011 con la sua decisione “Pierre Fabre” sul divieto generale di vendite su internet e, nel 2018, ne ha posta un’altra con la famosa pronuncia “Coty Germany” – entrambe riguardanti la distribuzione di prodotti (cosmetici) di lusso. Risultato:
“Un fornitore di prodotti di lusso può vietare ai suoi distributori autorizzati di vendere
i prodotti su una piattaforma Internet terza” (Comunicato stampa n. 132/17 del 6 dicembre 2017).
O, più brevemente l’Alta Corte Regionale di Francoforte nel 2018:
“Prodotti di lusso giustificano divieti di vendita online”.
(Comunicato stampa n. 30/2018 del 12 luglio 2018, in applicazione dei principi guida della suprema corte europea sui divieti di vendite online).
Per domande a cui sono state date risposte, altre ne sono sorte: solo il produttore di prodotti di lusso può proibire vendite online ai propri distributori? E se sì, che cos’è lusso? L’autorità per la concorrenza tedesca, il Bundeskartellamt, nella sua prima reazione dichiarava che la sentenza Coty dovrebbe applicarsi esclusivamente a prodotti originariamente di lusso:
“Produttori di marca non hanno ancora carte blanche su #divieti di piattaforme. Primo giudizio: “Limitato impatto sulla nostra attività” (Twitter, 6 dicembre 2017).
La Commissione Europea ha preso posizione in senso opposto, stabilendo che l’argomento della Corte nella decisione Coty dovrebbe applicarsi anche alla distribuzione di altri prodotti, senza aver riguardo al loro carattere di lusso:
“Le argomentazioni apportate dalla Corte sono valide indipendentemente dalla categoria di prodotto coinvolta (ossia beni di lusso nel caso di specie) e sono ugualmente applicabili a prodotti non di lusso. Che un divieto di usare piattaforme abbia l’obiettivo di restringere il territorio nel quale, o i consumatori a cui il distributore può vendere i prodotti, o se limita le vendite passive del distributore, non può logicamente dipendere dalla natura del prodotto coinvolto.” (Competition Policy Brief, aprile 2018)
Più di un anno dopo la decisione Coty, le norme non sono ancora al 100% chiare: tra i tribunali tedeschi, l’Alta Corte Regionale di Amburgo ha autorizzato il divieto di effettuare vendite su piattaforme terze anche con riguardo a prodotti non di lusso, i quali siano di alta qualità (decisione del 22 marzo 2018, fascicolo n. 3 U 250/16) – nella fattispecie, con riguardo a un sistema di distribuzione selettiva per integratori alimentari e cosmetici.
“se i beni venduti sono di alta qualità e la distribuzione è combinata a una consulenza al consumatore e servizi di assistenza paralleli, con lo scopo, tra gli altri, di illustrare al consumatore un prodotto finito e nel suo complesso sofisticato, di alta qualità e dal prezzo alto e di costruire o mantenere una specifica immagine del prodotto” (testo tradotto dalla versione originale in tedesco).
Di recente, il Bundeskartellamt tedesco ha preso nuovamente posizione, riaffermando la propria prima posizione:
“Le dichiarazioni della Corte di Giustizia UE, a tal riguardo, sono limitate a prodotti di lusso e non possono essere facilmente trasferite ad altri prodotti di marca (di alta qualità).” (Wettbewerbsbeschränkungen im Internetvertrieb nach Coty und Asics – wie geht es weiter?, 02.10.2018).
I fornitori i quali vogliano agire in modo prudente dovrebbero utlizzare ricorrere con cautela a divieti di usare piattaforme al di fuori della distribuzione selettiva di prodotti di lusso. Per uno sguardo generale sulla prassi corrente con clausole contrattuali modello, vedi Rohrßen, Vertriebsvorgaben im E-Commerce 2018: Praxisübersicht und Folgen des “Coty”-Urteils des EuGH, in: GRUR-Prax 2018, 39-41 (in tedesco).
La distribuzione diretta
In alternativa, o in aggiunta, alle restrizioni in capo ai distributori i produttori si affidano spesso alla distribuzione diretta, vuoi per conto proprio con i propri dipendenti, vuoi attraverso agenti commerciali o tramite commissionari. Ciò significa che il rischio della distribuzione cade soltanto in capo al produttore e ciò comporta un grande vantaggio: i fornitori sono fondamentalmente svincolati dalle restrizioni del diritto antitrust e possono persino stabilire il prezzo di rivendita. Questo ha portato ad un aumento della distribuzione diretta in tutte le categorie di prodotti, compreso anche il settore automobilistico.
Quando il contratto di agenzia è da considerarsi internazionale?
Secondo le norme di diritto internazionale privato vigenti in Italia (Art.1 Reg. 593/08 “Roma I”) il contratto si considera internazionale “in circostanze che comportino un conflitto di leggi”.
Le circostanze che più spesso comportano un conflitto di leggi in un contratto di agenzia, rendendolo quindi “internazionale”, sono (i) l’ubicazione della sede del preponente in un Paesi diverso dalla sede dell’agente; oppure (ii) l’esecuzione del contratto all’estero, anche quando il preponente e l’agente abbiano sede nello stesso Paese.
Quando si applica la legge italiana ad un contratto di agenzia?
Sempre in base al Regolamento “Roma I”, in linea di principio il diritto italiano si può applicare ad un contratto di agenzia internazionale (i) se viene scelto delle parti come legge regolatrice del contratto (in modo espresso o nelle altre modalità indicate dall’art.3); oppure (ii) in mancanza di scelta, quando l’agente risieda o abbia sede in Italia (secondo il concetto di “residenza” contenuto all’art.19).
Qual è la disciplina principale del contratto di agenzia in Italia?
In Italia, le norme sostanziali che regolano il contratto di agenzia ed in particolare il rapporto fra le parti preponente ed agente, sono prevalentemente contenute negli articoli da 1742 a 1753 del Codice Civile, che sono stati modificati in più occasioni con il recepimento della Direttiva 653/86/CE.
Qual è il ruolo degli accordi economici collettivi?
Da molti anni, in Italia, i contratti di agenzia sono regolati anche dagli Accordi Economici Collettivi (AEC), ovvero quegli accordi che vengono stipulati periodicamente dalle associazioni rappresentative dei preponenti e degli agenti in vari settori (industria, commercio e diversi altri).
Dal punto di vista della loro efficacia, se ne distinguono due tipologie: gli AEC aventi forza di legge (efficacia “erga omnes”) i quali peraltro contengono norme piuttosto generali e hanno quindi un campo di applicazione limitato; e gli AEC “di diritto comune”, che si sono via via avvicendati nel corso degli anni e sono finalizzati a vincolare solo preponenti ed agenti iscritti a tali associazioni.
In generale, gli Accordi Economici Collettivi intendono recepire le norme del Codice Civile (e, di riflesso, quelle della Direttiva 653/86) ma – soprattutto quelli di diritto comune – introducono deroghe anche rilevanti. Ad esempio, essi consentono al preponente modifiche unilaterali alla zona, ai prodotti, alla clientela, alla misura della provvigione; regolano in maniera parzialmente diversa la durata del periodo di preavviso per il recesso dai contratti a tempo indeterminato; quantificano il compenso per il patto di non concorrenza post-contrattuale; hanno una peculiare disciplina in materia di indennità di risoluzione del rapporto.
Sull’indennità di fine rapporto, in particolare, gli AEC hanno generato non pochi problemi di conformità con la Direttiva 653/86/CE, di cui si è occupata anche la Corte di Giustizia CE ma tuttora non del tutto risolti per effetto di una costante giurisprudenza delle Corti italiane che, di fatto, mantiene tale trattamento in vigore.
La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che i contratti collettivi abbiano una sfera di applicazione geografica limitata al territorio italiano.
Gli AEC regolano dunque automaticamente il contratto di agenzia se la legge regolatrice è quella italiana e se il contratto viene eseguito dall’agente in Italia, ma (nel caso degli accordi di diritto comune) all’ulteriore condizione che entrambe le parti siano iscritte ad una delle associazioni che hanno stipulato tali Accordi (secondo una parte della dottrina, è sufficiente che vi sia iscritta anche solo la parte preponente).
Anche in mancanza di tali condizioni cumulative, tuttavia, gli AEC di diritto comune potranno ugualmente valere se siano richiamati espressamente nel contratto, oppure se le loro disposizioni vengano costantemente applicate dalle parti.
Quali sono gli altri principali requisiti e adempimenti in materia di contratto di agenzia?
L’Enasarco
L’Enasarco è una Fondazione di diritto privato alla quale devono, per legge, essere obbligatoriamente iscritti gli agenti in Italia.
La Fondazione Enasarco amministra principalmente un fondo di previdenza integrativo per gli agenti ed un fondo per l’indennità di risoluzione del rapporto di agenzia (calcolata secondo i criteri dell’AEC di riferimento per il settore).
Tipicamente, nei contratti di agenzia “domestici”, il preponente iscrive l’agente presso l’Enasarco e versa i contributi ad entrambi i fondi durante l’intero rapporto.
Tuttavia, mentre l’iscrizione e il versamento dei contributi previdenziali sono sempre obbligatori in quanto previsti dalla legge, viceversa la contribuzione al FIRR (fondo indennità risoluzione del rapporto) è obbligatoria solo in quei contratti di agenzia ai quali si applicano gli AEC di diritto comune.
Quali sono le regole per i contratti internazionali?
Per quanto riguarda l’iscrizione all’Enasarco, a fronte di una disciplina legislativa e regolamentare non molto chiara, un contributo interpretativo importante è stato fornito dal Ministero del Lavoro nel 2013 in risposta ad un interpello (19.11.13 n.32).
Il Ministero, riferendosi alla disciplina europea (Regolamento CE n.883/2004 come modificato dal Regolamento (CE) n. 987/2009) ha chiarito che l’iscrizione all’Enasarco è obbligatoria nei seguenti casi:
- agenti che operano sul territorio italiano in nome e per conto di preponenti italiani o esteri aventi una sede o una dipendenza in Italia;
- agenti italiani o stranieri che operano in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri anche se privi di sede o dipendenza in Italia;
- agenti che risiedono in Italia e qui svolgono una parte sostanziale della loro attività;
- agenti che non risiedono in Italia, ma hanno in Italia il proprio centro di interessi;
- agenti che operano abitualmente in Italia ma si recano a svolgere attività esclusivamente all’estero per una durata non superiore a 24 mesi.
Nei rapporti di agenzia da eseguirsi al di fuori del territorio UE, non applicandosi i Regolamenti appena citati, sarà opportuno verificare di volta in volta se l’obbligo di osservare la legislazione previdenziale italiana sia previsto da eventuali trattati internazionali di cui facciano parte i Paesi delle due parti.
Camera di Commercio e Registro delle Imprese
Chiunque intenda avviare un’attività quale agente di commercio in Italia, ha l’obbligo di effettuare una SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) alla Camera di Commercio territorialmente competente la quale iscrive l’agente al Registro delle Imprese se l’agente ha forma di impresa, o viceversa ad una sezione apposita del REA (Repertorio delle Notizie Economiche ed Amministrative) della Camera stessa (D. Lgs.59 del 26.3.2010 che ha recepito a Direttiva 2006/123/CE “Direttiva Servizi”).
Tali formalità hanno sostituito l’iscrizione al vecchio “ruolo agenti” che è stato soppresso dalla suddetta legge, la quale prevede inoltre tutta una serie di requisiti che gli agenti debbono avere al fine di poter avviare l’attività ( tali requisiti riguardano istruzione, esperienza, assenza di condanne, ecc.).
Benché la mancanza della suddetta iscrizione non comporti la nullità del contratto, è opportuno che il preponente, prima di conferire l’incarico ad un agente italiano, si accerti che questi l’abbia effettuata in quanto è comunque obbligatoria.
Competenza territoriale per le controversie (art.409 e seguenti c.p.c.)
In base agli artt.409 e seguenti del Codice di Procedura Civile, nel caso in cui l’agente svolga la sua prestazione contrattuale a carattere prevalentemente personale anche se in forma autonoma (agente “parasubordinato”) la sottoposizione del contratto alla legge italiana ed al foro italiano comporterà che eventuali controversie derivanti dal contratto di agenzia saranno inderogabilmente sottoposte al Giudice del lavoro nella circoscrizione in cui si trova il domicilio dell’agente (v. art.413 c.p.c.) ed il processo seguirà il “rito del lavoro” ovvero regole procedurali analoghe a quelle valevoli nelle controversie nell’ambito del lavoro subordinato.
Questa regola, in linea di principio, varrà quando l’agente stipuli il contratto personalmente o come ditta individuale, mentre l’opinione prevalente è che non si applichi nel caso in cui l’agente rivesta la forma di società.
Applicazione delle regole ai casi più frequenti di contratto internazionale di agenzia
Cerchiamo ora di adattare le regole sopra descritte alle situazioni più frequenti di contratto internazionale di agenzia, tenendo presente che si tratta di semplici esempi schematici, dovendosi in realtà verificare di volta in volta con attenzione le circostanze del caso specifico.
Preponente italiano ed Agente estero – contratto da eseguirsi all’estero
Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti, salve le eventuali norme imperative del Paese dove l’agente risiede od opera, secondo le norme del Regolamento Roma I.
AEC: non regolano il contratto automaticamente (in quanto l’agente opera all’estero) ma solo ove espressamente richiamati o di fatto applicati. Questo potrebbe accadere più o meno intenzionalmente, ad esempio se il preponente italiano decidesse di adottare anche per gli agenti esteri gli stessi modelli di contratto utilizzati per agenti italiani, contenenti riferimenti agli accordi economici collettivi.
Enasarco: non vi sono normalmente obblighi di iscrizione né di contribuzione a favore dell’agente non italiano che risiede e svolge l’attività contrattuale esclusivamente all’estero.
Camera di Commercio: non vi è obbligo di iscrizione stanti i suddetti presupposti.
Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.): se fosse validamente pattuito il foro italiano, l’agente estero anche se persona fisica o ditta individuale non potrebbe far valere questa disposizione per spostare la causa presso le corti del proprio Paese in quanto l’art.413 c.p.c. è una norma sulla competenza interna che presuppone l’ubicazione dell’agente in Italia. Inoltre, tale norma dovrebbe soccombere di fronte alle regole di giurisdizione stabilite dalla legislazione UE, come ha stabilito la Corte di Cassazione italiana e come ritiene autorevole dottrina.
Preponente estero ed Agente italiano – contratto da eseguirsi in Italia
Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti oppure, anche in mancanza di scelta, per effetto della residenza o sede in Italia dell’agente.
AEC: quelli aventi forza di legge (“erga omnes”) regolano il contratto, mentre quelli di diritto comune difficilmente si applicheranno in modo automatico (il preponente estero solitamente non sarà iscritto alle associazioni italiane che hanno stipulato l’AEC) ma potrebbero nondimeno valere se richiamati nel contratto o se applicati di fatto.
Enasarco: il preponente estero dovrà iscrivere l’agente italiano all’Enasarco, pena sanzioni e/o richieste di risarcimento danni da parte dell’agente. In conseguenza dell’iscrizione, il preponente dovrà assolvere all’obbligo di contribuzione previdenziale mentre non dovrebbe sussistere l’obbligo di versamento al Fondo Indennità di Fine Rapporto. Tuttavia, un preponente che effettuasse i versamenti periodici al FIRR anche quando non dovuti, potrebbe ritenersi avere tacitamente accettato gli AEC come applicabili al rapporto di agenzia.
Camera di commercio: l’agente italiano dovrà risultare iscritto alla CCIAA ed a questo proposito è opportuno che il preponente verifichi che lo sia effettivamente, prima di stipulare il contratto.
Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.):se il foro competente è quello italiano (per scelta delle parti o anche in assenza di scelta in quanto luogo della prestazione dei servizi secondo il Regolamento 1215/12) e se l’agente è persona fisica o ditta individuale situata in Italia, varrà la regola in questione.
Preponente italiano ed Agente italiano – contratto da eseguirsi all’estero
Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti oppure, in mancanza di qualsiasi scelta, se l’agente risieda o abbia sede in Italia.
AEC: non dovrebbero valere (eseguendosi il contratto all’estero) se non espressamente richiamati o applicati.
Enasarco: secondo l’orientamento del Ministero del Lavoro, l’obbligo di iscrizione sussiste qualora l’agente, pur essendo stato incaricato per l’estero, risieda e svolga una parte sostanziale dell’attività in Italia o abbia qui il centro dei propri interessi oppure si rechi all’estero per un periodo non superiore a 24 mesi, se valgono i Regolamenti UE. In caso di rapporto da eseguirsi in Paesi extra UE, l’obbligatorietà dell’iscrizione sarà da verificare di volta in volta.
Camera di commercio: l’agente che abbia avviato l’attività e si sia giuridicamente costituito in Italia è tenuto in linea di principio ad iscriversi presso la Camera di Commercio.
Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.): la regola vale se l’agente è persona fisica o ditta individuale italiana e sia contrattualmente pattuito il foro in Italia.
Preponente estero ed agente estero – contratto da eseguirsi in Italia
Legge italiana: in linea di principio regola il contratto solo se scelta dalle parti.
AEC: se il contratto è regolato dalla legge italiana, valgono gli accordi aventi forza di legge, non invece quelli di diritto comune se non espressamente richiamati o di fatto applicati.
Enasarco: secondo l’orientamento del Ministero del Lavoro, sulla base dei Regolamenti UE l’obbligo di iscrizione potrebbe sussistere per il preponente estero anche a favore dell’agente che risieda all’estero se opera in Italia o se ha in Italia il centro dei propri interessi. Viceversa, il caso andrà verificato di volta in volta in base alle norme vigenti.
Camera di commercio: in linea di principio, l’agente che si sia giuridicamente costituito all’estero non è tenuto ad assolvere agli obblighi di iscrizione in Italia. Tuttavia, la questione potrebbe essere più complessa se l’agente avesse una sede e svolgesse prevalentemente la propria attività in Italia (il che potrebbe avere un impatto anche sulla determinazione del diritto applicabile).
Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.): in assenza di scelta diversa, il foro italiano potrebbe essere competente in quanto luogo di prestazione dei servizi, tuttavia le norme in questione non dovrebbero applicarsi se l’agente (persona fisica o ditta individuale) non abbia una sede in Italia.
Conclusioni
Si auspica che le osservazioni svolte fino a qui, pur non esaustive, siano utili per comprendere le possibili conseguenze dell’applicazione della legge italiana ad un contratto internazionale di agenzia e per fare delle scelte oculate in sede di redazione del contratto. Come sempre, si raccomanda di non basarsi acriticamente su modelli o precedenti senza adeguata considerazione delle circostanze del caso.
„Prodotti di lusso giustificano divieti di distribuire su piattaforme terze” recita il Comunicato stampa n. 30/2018 della Corte d’Appello di Francoforte del 12.07.2018.
Dopo la sentenza Coty della CGUE, a lungo attesa (vedi l’articolo di dicembre 2017 https://www.legalmondo.com/it/2017/12/corte-di-giustizia-ue-ammette-la-restrizione-alle-vendite-online-sentenza-coty/), la Corte d’Appello di Francoforte sul Meno ha applicato le indicazioni della CGUE, (i) ribadendo la possibilità di limitare la rivendita attraverso piattaforme terze. Nel corso di questo post, inoltre, vedremo anche la (ii) recente pronuncia della Corte d’Appello di Amburgo, che ha esteso il principio della sentenza Coty anche ad altre merci dal valore qualitativo elevato, ma al di fuori del segmento del lusso. In conclusione, poi, (iii) alcuni suggerimenti pratici.
Prodotti di lusso giustificano i divieti di usare piattaforme
Ai sensi della sentenza della Corte d’Appello di Francoforte, Coty può inibire al distributore la distribuzione tramite piattaforme di terzi. Nel contratto di distribuzione selettiva adottato da Coty, ogni rivenditore era libero di instaurare cooperazioni pubblicitarie con piattaforme terze, nelle quali i clienti vengono indirizzati al negozio internet del rivenditore. Il divieto di distribuzione su market-place, sarebbe invece ammissibile già sulla base del Regolamento sulle esenzioni per categorie di accordi verticali, in quanto non rappresenterebbe una restrizione fondamentale. Il divieto di distribuzione potrebbe essere esentato persino dal divieto di cartelli nell’ambito di una distribuzione selettiva; nel presente caso sarebbe soltanto dubbio se il divieto di qualsiasi “cooperazione di vendita con una piattaforma terza riconoscibile esternamente da altri e senza riguardo alla sua concreta strutturazione stia in rapporto ragionevole con il fine perseguito” (testo tradotto dall’originale in tedesco), sia quindi proporzionato o incida sull’attività concorrenziale del rivenditore. La Corte ha lasciato aperta questa questione.
Anche altri merci di alto valore giustificano i divieti di usare piattaforme
Il caso deciso dalla Corte d’Appello di Amburgo (Decisione del 22.03.2018, fasc. n. 3 U 250/16) concerne un sistema di distribuzione selettiva qualitativo per integratori alimentari e cosmetici, il quale avviene tramite Network Marketing così come via Internet. Le linee guida distributive contengono, tra le altre cose, concrete indicazioni sulla pagina internet del rivenditore, possibilità di prendere direttamente contatto con i clienti in base al “principio della vendita di merci fatta su persona” (in quanto il sistema distributivo mira a vendere il prodotto tagliato sulle esigenze personali dei clienti nell’ambito di una consulenza personalizzata) così come della qualità dell’informazione e della rappresentazione del prodotto. Espressamente vietata sarebbe “la distribuzione … tramite eBay e altre piattaforme commerciali internet paragonabili”, in quanto esse non sarebbero conformi ai requisiti qualitativi, in ogni caso non “in base allo stato attuale” (testo tradotto dall’originale in tedesco).
Il Tribunale di prima istanza ha ritenuto ammissibile il divieto di far uso di piattaforme (Tribunale di Amburgo, sentenza del 04.11.2016, fasc. n. 315 O 396/15) – cosa che la Corte d’Appello di Amburgo ha ora confermato. Ciò in quanto, secondo la Corte d’Appello, sistemi di distribuzione selettiva qualitativi sarebbero ammissibili non solo per beni di lusso e tecnicamente dal valore alto, bensì anche per (ulteriori) merci di alto valore qualitativo, “qualora le merci distribuite siano di alta qualità e la distribuzione sia indirizzata a prestazioni accompagnatorie di consulenza e assistenza per il cliente, con cui tra l’altro si persegue il fine di spiegare al cliente un prodotto finale il quale nel complesso sia sofisticato, qualitativamente di alto valore e dal prezzo elevato e di costruire o conservare una particolare immagine del prodotto” (testo tradotto dall’originale in tedesco).
Nell’ambito di un tale sistema di distribuzione selettiva per la distribuzione di integratori alimentari e cosmetici potrebbe quindi essere ammissibile “tramite corrispondenti linee guida d’impresa, vietare al partner distributivo la distribuzione di tali merci su determinate piattaforme di vendita online, al fine di preservare l’immagine di prodotto e la prassi di una consulenza legata al cliente in grado di contribuire a creare tale immagine, così come al fine di evitare pratiche commerciali di singoli partner distributivi lesive dell’immagine del prodotto e dell’immagine, le quali siano state accertate nel passato e conseguentemente perseguite” (testo tradotto dall’originale in tedesco).
Una particolarità qui: non si trattava di “puri prodotti di prestigio“ – inoltre la Corte d’Appello non si era limitata all’accertamento che il divieto di usare piattaforme fosse ammissibile ai sensi dell’art. 2 Regolamento sulle esenzioni per categorie di accordi verticali e pratiche concordate, ma la Corte ha declinato in modo preciso e passo-passo i c.d. criteri Metro.
Conclusioni
- Internet resta un motore di crescita per beni di consumo, come anche i dati di mercato della associazione commercianti della Germania confermano: “Online-Handel bleibt Wachstumstreiber“.
- Al tempo stesso, proprio i produttori di marca vogliono una crescita regolata ai sensi delle regole del loro sistema di distribuzione e secondo le loro indicazioni. Di ciò fanno parte, proprio per prodotti di lusso e tecnicamente sofisticati così come ulteriori prodotti richiedenti una consulenza intensiva, indicazioni stringenti sulla pubblicazione della marca e sulla pubblicità (indicazioni su clausole applicabili a negozi fisici, divieti di piazze di mercato) e sui servizi da fornire (ad es. chat e/o numero telefonico con indicazioni sulla disponibilità).
- I produttori dovrebbero verificare se i loro divieti di usare piattaforme siano conformi ai requisiti della CGUE oppure se essi possono instaurare divieti di usare piattaforme – nella distribuzione selettiva, esclusiva, di franchising e in quella aperta.
- Chi vuole correre minori rischi possibili, dovrebbe, al di fuori della distribuzione selettiva di merci di lusso, essere ancora prudente con divieti di usare piattaforme – ciò in quanto anche l’Ufficio Federale dei Cartelli ha come prima reazione dichiarato che la sentenza Coty vale solo per prodotti originariamente di lusso: “#Produttori di marca non hanno, ora come prima, nessuna carta bianca per #divieti di piattaforme. Prima valutazione: Ripercussioni limitate sulla nostra prassi” (BKartA su Twitter, 6.12.2017). In senso contrario si è ora posizionata la Commissione Europea: nella sua “Competition Policy Brief” di Aprile 2018 („EU competition rules and marketplace bans: Where do we stand after the Coty judgment?“) la Commissione – alquanto tra parentesi – tiene fermo il fatto che l’argomentazione adottata dalla CGUE nel caso Coty vale anche indipendentemente dal carattere di lusso dei prodotti distribuiti:
“Gli argomenti prodotti dalla Corte sono validi indipendentemente dalla categoria di prodotti coinvolti (ossia, nel caso di specie, beni di lusso) e sono applicabili egualmente a prodotti non di lusso. Se un divieto di usare piattaforme ha l’obiettivo di restringere il territorio in cui il prodotto può essere venduto o i consumatori a cui il distributore può vendere i prodotti o se limita le vendite passive del distributore, ciò non può logicamente dipendere dalla natura del prodotto coinvolto.” (traduzione dal testo originale in inglese)
Effettivamente la Corte di Giustizia UE nella sentenza ha definito “merci di lusso” in modo ampio: come merci la cui qualità “non poggia solo sulle sue caratteristiche materiali”, bensì su valori immateriali – cosa che per quanto riguarda merci di marca generalmente risulta vero (cfr. sentenza Coty della Corte di Giustizia UE del 06.12.2017, n. 25 così come, per quanto riguarda “merci di qualità”, le Conclusioni finali del 26.07.2017 dell’Avvocato Generale presso l’UE, n. 92). Inoltre la Corte di Giustizia UE richiede soltanto che le merci siano comprate “anche” per il loro carattere di prestigio, non “soltanto” o “soprattutto” per quello. Tutto ciò gioca a favore dei produttori di marca, che pare possano assumere divieti di utilizzo di piattaforme nei loro contratti di distribuzione – quantomeno entro una quota di mercato fino a un massimo del 30%.
- Chi non ha alcun timore di affrontare rivenditori e autorità dei cartelli, può erigere divieti di utilizzo di piattaforme assolutamente anche al di fuori della distribuzione selettiva di merci di lusso – o puntare in modo ancora più forte su prodotti Premium o di lusso – come ad esempio nel caso della catena di profumi Douglas (cfr. Süddeutsche Zeitung dell’08.03.2018, pag. 15: “Attiva e non convenzionale, Tina Müller termina gli sconti presso Douglas e punta sul lusso”(traduzione dal testo originale in tedesco)).
- Per assicurare una qualità uniforme della distribuzione si possono inserire delle indicazioni qualitative stringenti, soprattutto rispetto alla distribuzione online. La lista delle possibili indicazioni qualitative è molto ampia. Tra questi, si riportano alcune “Best Practice” piuttosto frequenti:
– Il posizionamento come rivenditore (piattaforma, assortimento, comunicazione)
– la configurazione della pagina internet (qualità, l’impressione, ecc.)
– il contenuto e l’offerta di prodotto della pagina internet,
– la esecuzione delle compravendite online,
– la consulenza e il servizio clienti così come
– la pubblicità.
- Essenziale è inoltre che i produttori non possono vietare completamente il commercio internet ai rivenditori e le indicazioni distributive non possono nemmeno avvicinarsi a un tale completo divieto – come ora vedono i tribunali nel caso del divieto di usare strumenti di ricerca dei prezzi da parte di Asics, vedi a tal riguardo l’articolo dell’aprile 2018 (https://www.legalmondo.com/it/2018/04/germania-divieto-strumenti-di-comparazione-prezzi-e-pubblicita-su-piattaforme-terze/).
- Ulteriori dettagli sono presenti nelle riviste giuridiche in lingua tedesca:
– Rohrßen, Vertriebsvorgaben im E-Commerce 2018: Praxisüberblick und Folgen des „Coty“-Urteils des EuGH, in: GRUR-Prax 2018, 39-41
– Rohrßen, Internetvertrieb von Markenartikeln: Zulässigkeit von Plattform-verboten nach dem EuGH-Urteil Coty, in: DB 2018, 300-306
– Rohrßen, Internetvertrieb: „Nicht Ideal(o)“ – Kombination aus Preissuchmaschinen-Verbot und Logo-Klausel, in: ZVertriebsR 2018, 120-123
– Rohrßen, Internetvertrieb nach Coty – Von Markenware, Beauty und Luxus: Plattformverbote, Preisvergleichsmaschinen und Geoblocking, in: ZVertriebsR 2018, 277-285.
Riassunto – Si tratta di un accordo di riservatezza, spesso utilizzato nel commercio internazionale, con il quale le parti si obbligano a mantenere riservate le informazioni confidenziali o sensibili scambiate durante i negoziati. Il modello di contratto è abbastanza standard, ma per la sua validità ed efficacia è fondamentale che il contenuto sia adattato al caso concreto, come la clausola di legge applicabile, il foro competente o arbitrato, le clausole penali, la durata, la lingua del contratto.
Accade molto spesso che in differenti contesti di business venga proposta la sottoscrizione di un Non Disclosure Agreement (“NDA”) e di un Memorandum of Understanding (“MoU”) o di una Letter of Intent (“LoI”), tanto che questi tre acronimi – NDA, MoU e LoI – sono ormai diventati di uso corrente, soprattutto in occasione di negoziati internazionali.
Spesso, però, questi contratti vengono utilizzati in modo improprio e con finalità diverse da quelle con le quali si sono affermati nella prassi del commercio internazionale, con il risultato di non essere utili perché non tutelano in modo efficace gli interessi delle parti, o addirittura di essere controproducenti.
Iniziamo vedendo quali sono le caratteristiche del Non Disclosure Agreement – NDA – e come è consigliabile utilizzarlo.
Di cosa parlo in questo articolo
- Cos’è il NDA – Accordo di riservatezza
- Chi sono le parti del NDA – Accordo di riservatezza
- Quali sono le Informazioni riservate?
- La condivisione delle Informazioni riservate con terzi
- Non Disclose and Non Use Agreement
- Il divieto di concorrenza
- La durata del NDA
- Inadempimenti del NDA e clausola penale
- NDA modello e standard
- Quale legge applicabile e giudice in un NDA internazionale?
- La lingua del NDA
- Conclusioni
- Come possiamo aiutarti
NDA – Cosa significa
Il NDA è un accordo che ha la funzione di tutelare la riservatezza delle informazioni che le parti (generalmente identificate, rispettivamente, come “Disclosing Party” e “Receiving Party”) intendono condividere, in diversi possibili scenari: la trasmissione d’informazioni per una due diligence preliminare a un investimento, la valutazione di dati commerciali per un contratto di distribuzione, le specifiche tecniche di un certo prodotto oggetto di trasferimento di tecnologia, etc.
Il primo step del negoziato, infatti, richiede spesso la messa a disposizione di informazioni di diverso tipo, tecniche, finanziarie o commerciali, da parte di una o di entrambe le parti, che è necessario che rimangano riservate (di seguito le “Informazioni Riservate”) durante e dopo la conclusione del negoziato.
Chi sono le parti dell’accordo di riservatezza?
Fondamentale, partendo dalle premesse dell’accordo, è la corretta individuazione delle parti obbligate alla protezione delle informazioni e al mantenimento della riservatezza, specie quando sono coinvolti gruppi societari, in cui gli interlocutori possono essere molteplici e situati in diversi paesi. In casi simili è consigliabile obbligare la Receiving Party a garantire il mantenimento della riservatezza da parte di tutte le società del gruppo.
È inoltre importante che l’accordo individui esattamente quali persone facenti parte dell’organizzazione della Receiving Party (si pensi a: dipendenti, consulenti tecnici, professionisti, collaboratori, etc.) hanno diritto di accedere alle Informazioni, se possibile con sottoscrizione dell’accordo di riservatezza da parte di tutte le persone coinvolte.
E’ anche importante prevedere se la Receiving Party possa o meno condividere le Informazioni Riservate con soggetti terzi, ad esempio consulenti tecnici o propri collaboratori esterni. In caso positivo la tutela migliore è quella di obbligare anche tali terzi a sottoscrivere il NDA e prevedere che la Receiving Party sia responsabile (“obbligata in solido”) insieme al terzo per il rispetto delle obbligazioni del NDA.
Spesso la richiesta di far firmare a terze parti il NDA e di essere responsabile per la gestione delle Informazioni Riservate da parte dei terzi viene contestata dalla Receiving Party, solitamente con la motivazione che sarebbe troppo complessa la gestione delle attività necessarie.
Ciò è sintomo di una scarsa predisposizione al rispetto dell’obbligo di riservatezza, che va valutato con attenzione. Se la parte ricevente non intende impegnarsi affinchè terzi rispettino gli obblighi di confidenzialità e non vuole essere responsabile dei loro eventuali inadempimenti ciò espone il Titolare ad un evidente rischio di divulgazione delle informazioni, senza che sia possibile agire in modo efficace per rimediare il danno.
Suggerisco, in questi casi, di essere molto rigorosi.
Il NDA deve prevedere che:
- l’accesso alle Informazioni Riservate da parte di terzi è possibile solo se preventivamente autorizzato per iscritto dalla Disclosing Party
- il terzo autorizzato deve firmare un allegato al NDA nel quale dichiara di aver preso visione degli obblighi di riservatezza e di obbligarsi al loro rispetto
- il terzo non possa condividere le Informazioni Riservate con altri soggetti non vincolati dal NDA, salvo espressa autorizzazione del Titolare
- la Disclosing Party sia responsabile in solido del rispetto delle obbligazioni del NDA da parte dei Terzi autorizzati
Identificazione delle Informazioni Riservate
L’utilizzo di modelli di NDA riciclati, reperiti su formulari o proposti dalla controparte è prassi certamente non raccomandabile, ma purtroppo molto diffusa.
Questi modelli, molto spesso, sono generici e contengono definizioni ampie delle Informazioni Riservate ed elenchi estremamente dettagliati, che comprendono, di fatto, tutto il contenuto dell’attività societaria, includendo spesso ambiti che non sono rilevanti per l’attività oggetto di negoziato, o informazioni che non sono riservate.
Un problema di questi modelli è che è difficile, ex post, verificare se un certo dato fosse o meno compreso nelle Informazioni, ad esempio perché non si sa se fosse già in possesso della Receiving Party prima della firma del NDA.
Un’altra criticità è rappresentata dal fatto che l’elenco molto dettagliato non includa proprio la singola informazione che interessa, oppure non lo faccia in modo chiaro.
Infine accade spesso che sia difficile ricostruire quali Informazioni, dopo la firma del NDA, sono state trasmesse alla Receiving Party, e quando è avvenuta la trasmissione (ad esempio perché sono state inviate in modalità non sicura e non tracciabile, è il caso delle Informazioni spedite come allegati da una email).
Come condividere le Informazioni Riservate
Il modo migliore di procedere è quello di identificare in modo preciso solo le informazioni che è necessario condividere, indicando i documenti da trasmettere in un elenco allegato al NDA.
Ad esempio, se si condivide un certo segreto industriale (“Know-how”) la cosa migliore è limitare l’oggetto dell’accordo solo alle informazioni sensibili relative a tale segreto e specificare in quale formato (cartaceo, digitale, software, hardware) verrà condiviso.
Il passo successivo è quello di metterli a disposizione in un formato che non consenta dubbi sul fatto che sono protette dal NDA, ad esempio marchiandole con un timbro “Confidential under NDA” seguito dalla data di invio.
Altra buona prassi è prevedere che l’accesso alle Informazioni avvenga con modalità sicura e tracciabile (come un’area riservata in cloud o sul server della Disclosing Party, accessibile solo con user name e password individuali assegnati alle persone autorizzate).
Il Divieto di uso delle Informazioni
Un errore abbastanza ricorrente nei modelli di NDA è la previsione dell’obbligo per la Receiving Party del solo mantenimento della riservatezza delle Informazioni, senza impedirgliene espressamente l’utilizzo.
Soprattutto nel caso di imprese concorrenti, però, l’utilizzo è più pericoloso della divulgazione: basti pensare alla possibilità che la Receiving Party sviluppi tecnologie o brevetti basati proprio sui segreti industriali acquisiti.
E’ importante prevedere, quindi, che l’obbligo non è solo di riservatezza ma anche di non uso, evidenziando tale patto anche nel titolo dell’accordo che può diventare “Non Disclosure and Non Use Agreement”.
Non Compete Agreement – Divieto di concorrenza
Altra situazione delicata è quella il cui una Parte condivida elenchi di clienti o di agenti o di fornitori o altre informazioni commerciali sensibili.
In questo caso oltre alle obbligazioni di riservatezza e di non utilizzo al di fuori di quanto previsto nel NDA, è bene prevedere espressamente clausole di Non Concorrenza.
Ad esempio, se viene condiviso un elenco di agenti o di fornitori, l’accordo può prevedere un obbligo di astensione dal contattare direttamente certi soggetti individuati negli elenchi condivisi (questo patto è anche noto come “Non Circumvention Agreement”).
La Durata dell’obbligo di riservatezza
La funzione del NDA è proteggere le Informazioni Riservate per tutto il tempo necessario alla loro condivisione tra le Parti.
È bene, quindi, che sia indicato in modo chiaro qual è il momento finale della condivisione e – nel caso in cui la Receiving Party sia in possesso di copia delle Informazioni Riservate – prevedere l’obbligo di restituzione o distruzione dei documenti.
E’ anche fondamentale indicare per quanto tempo la Receiving Party sia tenuta a mantenere la riservatezza e non utilizzare le Informazioni dopo il periodo necessario al loro esame, ad esempio 24 mesi.
NDA – Inadempimenti
Provare e quantificare i danni derivanti una violazione dell’obbligo di riservatezza è generalmente molto complesso, perché si traduce in vantaggio / danno intangibile, come ad esempio la possibilità di sviluppare un certo prodotto concorrente in tempi rapidi proprio grazie alle Informazioni apprese.
Può essere allora utile prevedere una clausola penale, che predetermini in una certa somma il danno derivante dall’inadempimento contrattuale.
A tal fine è importante considerare che la quantificazione della penale deve essere ragionevole in relazione al danno che si presume possa scaturire dalla violazione della segretezza o dall’utilizzo delle Informazioni.
E’ consigliabile prevedere diversi importi a titolo di penale in relazione a diverse ipotesi di inadempimento (ad esempio, la registrazione o la contraffazione di un brevetto utilizzando le informazioni tecniche condivise, oppure il contatto con certi partner commerciali).
In ogni caso, prima di inserire clausole penali è opportuno valutare cosa preveda la legge applicabile all’accordo per la validità di questo patto, in particolare per la quantificazione massima della penale (si veda il punto successivo).
Il rischio, se non si conosce la legge applicabile all’accordo di non riservatezza, è che in caso di contenzioso il Giudice ritenga la clausola invalida o che la penale sia di importo eccessivo in relazione all’inadempimento e quindi la riduca ad una somma equa.
Oppure, al contrario, una parte possa essere condannata al pagamento di una penale addirittura superiore al valore del contratto (è il caso di una recente decisione della Suprema Corte Russa).
La clausola penale, infine, può essere anche utilizzata in modo tattico. Se in sede di negoziato la Receiving Party si oppone fermamente all’inserimento della penale o ne chiede la riduzione ciò può essere un indizio di una riserva mentale di inadempimento.
NDA template e Smart Contract
E’ molto agevole, oggi, procurarsi un modello di NDA: template o standard possono essere reperiti gratuitamente su vari siti come bozze generiche da completare, o essere costruiti online rispondendo ad una serie di domande per personalizzare il contratto per il caso specifico.
Il mio consiglio è di procedere con grande attenzione: per i motivi che spiego in questo post, il NDA è un accordo che deve essere redatto con grande attenzione e con l’aiuto di un consulente esperto.
Un buon modello (template) di NDA può essere una base di partenza utile, dopo di che una revisione di un esperto è un passaggio fondamentale, soprattutto per verificare che il contenuto del NDA sia conforme a quanto prevede la legge che si applica all’accordo e che le modalità di risoluzione delle controversie previste siano efficaci.
Legge applicabile e foro competente
Una cattiva abitudine è anche quella di relegare le clausole su legge applicabile e modalità di risoluzione delle controversie alla fine dell’accordo (tanto che vengono definite “Midnight Clauses”, per un approfondimento si veda questo post su Legalmondo) e di non prestare particolare attenzione al loro contenuto.
Ciò porta spesso alla previsione di clausole del tutto sbagliate (o addirittura nulle) che in caso di contenzioso vanificano la possibilità di ottenere tutela in giudizio.
La clausola che prevede la legge applicabile e la giurisdizione è fondamentale, perché da essa dipende la possibilità di far rispettare l’accordo e/o di ottenere un provvedimento giudiziario che possa essere eseguito in modo rapido ed efficace.
La questione è molto delicata perché non esiste una soluzione valida per tutti i casi e occorre considerare le specificità del singolo accordo di riservatezza.
Ci sono le Parti e dove hanno sede? Quali sono le informazioni riservate e dove possono essere utilizzate? Cosa prevede la legge del paese in cui ha sede la controparte? La modalità di risoluzione delle controversie più efficace deve essere individuata dando risposta a queste domande.
Facciamo un esempio: in un NDA con una controparte cinese è spesso controproducente scegliere di applicare la giurisdizione e la legge italiana, visto che in caso di inadempimento è solitamente necessario agire rapidamente in Cina (anche in via d’urgenza) e non presso un giudice italiano. In tal caso è consigliabile redigere il NDA con testo bilingue inglese/cinese e prevedere un arbitrato in Cina, applicando la legge cinese.
NDA in inglese, cinese o doppia lingua
Accade spesso che il modello di NDA venga proposto dalla controparte straniera e sia in inglese, o in doppia lingua (es. inglese e cinese).
E’ anche frequente che sia la parte italiana che richieda che i contratti internazionali siano in doppia lingua: ad esempio italiano e inglese o spagnolo.
In alcuni casi, per fortuna eccezionali, ho anche visto contratti in 3 lingue: italiano, inglese e cinese.
Ciò si verifica di solito perché, nonostante l’inglese sia la lingua franca del commercio internazionale, le parti sono più a loro agio nel negoziare e firmare un accordo che sia anche nella loro lingua.
La previsione di una seconda lingua può poi essere importante per essere certi che non vi siano fraintendimenti sul contenuto dell’accordo (una parte cinese non potrà invocare di non aver compreso il significato di un patto in inglese, se è disponibile una versione anche in cinese).
Infine, se necessario, una versione bilingue è immediatamente ed agevolmente utilizzabile in caso di azione legale, per rimanere sullo stesso esempio, davanti ad un giudice cinese, senza che sia necessario procedere a traduzioni (non sempre di buona qualità) nel corso del giudizio.
Qualche consiglio pratico:
- se non si conosce la seconda lingua del NDA, verificare sempre che il contenuto sia completo e conforme a quello della prima (accade spesso che nei vari passaggi di negoziato di un accordo qualcuno si dimentichi di riportare una modifica nell’altra lingua)
- se possibile richiedere una revisione del testo anche da parte di un legale madrelingua, per escludere l’utilizzo di termini impropri o non corretti
- stabilire quale versione prevale in caso di incongruenze tra una lingua e l’altra
In conclusione
Il NDA – Accordo di riservatezza è un contratto che spesso è concluso in modo frettoloso, sottovalutandone l’importanza e la complessità.
Il mio consiglio è di evitare il fai da te e affidarsi ad un legale specializzato, che sappia negoziare e redigere il NDA tenendo conto di tutte le particolarità del caso (tipo di negoziato, informazioni riservate condivise, sede delle parti e paesi in cui andrà eseguito il NDA, contenuto della legge straniera eventualmente applicabile, modalità di risoluzione delle controversie più conveniente, etc.).
Possiamo aiutarti?
Legalmondo offre la possibilità di lavorare online con un avvocato specializzato per redigere il tuo NDA, revisionare il contratto proposto dalla controparte o negoziare un NDA con partner italiani o stranieri.
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Il contratto di agenzia internazionale
12 Febbraio 2019
-
Italia
- Agenzia
- Distribuzione
Riassunto: In Germania, al termine di un contratto di distribuzione, gli intermediari di una rete di distribuzione (in particolare, i distributori/franchisee) possono chiedere un’indennità al proprio produttore/fornitore, se si configura una fattispecie analoga a quella dell’agente commerciale. Tali condizioni sussistono se l’intermediario è integrato nella rete commerciale del fornitore ed è obbligato a trasferire il proprio portafoglio clienti al fornitore, cioè a trasmettere i dati dei propri clienti in modo che il fornitore possa immediatamente e senza ulteriori indugi sfruttare i vantaggi del portafoglio clienti al termine del contratto. Una recente decisione giudiziaria mira ora ad estendere il diritto all’indennità del distributore a casi in cui il fornitore abbia in qualche modo beneficiato del rapporto commerciale con il distributore, anche nel caso in cui il distributore non abbia fornito i dati dei clienti al fornitore. Questo articolo illustra tale novità e fornisce suggerimenti su come superare le incertezze emerse a seguito di questa nuova decisione.
Un tribunale tedesco ha recentemente ampliato il diritto del distributore all’indennità di fine rapporto: i fornitori potrebbero dover pagare l’indennità ai propri distributori autorizzati anche nel caso in cui questi ultimi non fossero obbligati a trasferire la propria clientela al fornitore. Al contrario, potrebbe essere sufficiente il conseguimento di un qualsiasi avviamento – inteso come vantaggi sostanziali che, a seguito della cessazione del rapporto, il fornitore possa derivare dalla relazione commerciale con il distributore, indipendentemente da che cosa le parti abbiano stipulato nell’accordo di distribuzione.
Questa decisione potrebbe influire su tutti i tipi di business in cui i prodotti siano venduti tramite distributori (e franchisee, vedi sotto) – in particolare, quindi, sul commercio al dettaglio (soprattutto per quanto riguarda prodotti di elettronica, cosmetica, gioielleria e talvolta anche moda), sul settore automobilistico e sul commercio all’ingrosso. I distributori sono imprenditori autonomi e indipendenti i quali vendono e promuovono i prodotti
- stabilmente ed in nome proprio (differentemente dagli agenti commerciali),
- per proprio conto (differentemente dagli agenti commissionari),
- perciò sopportando il rischio ed i cui margini di profitto – per contro – sono piuttosto alti.
Nel diritto tedesco i distributori sono meno protetti rispetto agli agenti commerciali. Tuttavia, anche i distributori e gli agenti commissionari (vedi qui) hanno diritto ad ottenere un’indennità alla cessazione del contratto, qualora sussistano due prerequisiti:
- il distributore o agente commissionario sia integrato nella rete di vendita del concedente/fornitore (più di un semplice rivenditore) e
- sia obbligato (contrattualmente o di fatto) ad inoltrare al fornitore i dati della clientela durante o al termine dell’esecuzione del contratto (Corte Federale tedesca, decisione del 26 novembre 1997, R.G. n. VIII ZR 283/96).
Ora, il Tribunale Regionale di Norimberga-Fürth ha stabilito che il secondo prerequisito sussiste già se il distributore ha procurato un avviamento al concedente:
“… l’unico fattore decisivo, ai fini di un’applicazione analogica, è se il convenuto (il concedente) ha tratto beneficio dalla relazione commerciale con l’attore (distributore). …
… il concedente deve corrispondere un’indennità se ha un “avviamento”, ossia una giustificata aspettativa di profitto dalle relazioni commerciali con la clientela procurata dal distributore.”
(cfr. decisione del 27 novembre 2018, R.G. n. 2 HK O 10103/12).
Al fine di giustificare tale estensiva applicazione, il tribunale ha fatto riferimento in via astratta alle conclusioni dell’avvocato generale della Corte UE nel caso Marchon/Karaszkiewicz, rese il 10 settembre 2015. Tale caso, tuttavia, non concerneva distributori, bensì il diritto all’indennità dell’agente commerciale, in particolare il concetto di “nuovi clienti” ai sensi della Direttiva 86/653/EEC sugli agenti commerciali.
Nel presente caso, secondo il tribunale, è sufficiente che il fornitore abbia sul proprio computer i dati sui clienti procurati dal distributore e possa fare liberamente uso degli stessi. Altre ipotesi in cui potrebbe sorgere il diritto del distributore all’indennità, persino a prescindere dai dati concreti sulla clientela, sarebbero casi in cui il fornitore rilevi il negozio dal distributore e i clienti conseguentemente continuino a visitare proprio quel negozio anche dopo che il distributore lo ha lasciato.
Consigli pratici:
1. La decisione rende l’inquadramento giuridico dei distributori / franchisee meno chiaro. L’interpretazione estensiva del tribunale, tuttavia, deve essere vista alla luce della giurisprudenza della Corte Federale: ancora nel 2015, la Corte ha negato il diritto all’indennità ad un distributore, contestando la mancanza del secondo requisito, in quanto il distributore non era obbligato a trasferire i dati sulla clientela (decisione del 5 febbraio 2015, R.G. n. VII ZR 315/13, facendo seguito alla propria precedente decisione nel caso Toyota del 17 aprile 1996, R.G. n. VIII ZR 5/95). Inoltre, la Corte Federale ha negato ai franchisee il diritto all’indennità qualora il franchising abbia ad oggetto un business anonimo di massa e la clientela continui ad essere clientela regolare soltanto in via di fatto (decisione del 5 febbraio 2015, R.G. n. VII ZR 109/13 nel caso della catena di panetterie “Kamps”). Resta da vedere come si evolverà questa giurisprudenza.
2. In ogni caso, prima di entrare nel mercato tedesco, i fornitori devono valutare se intendano assumersi il rischio di dover pagare un’indennità alla cessazione del contratto.
3. Lo stesso vale per i franchisor: i franchisee saranno probabilmente in grado di far valere il diritto ad un’indennità sulla base dell’applicazione analogica della normativa sull’agenzia commerciale. Fino ad ora, la Corte Federale ha negato il diritto all’indennità del franchisee caso per caso, lasciando così aperta la questione se i franchisee possano in via generale far valere un tale diritto (cfr. ad esempio la decisione del 23 luglio 1997, R.G. n. VIII ZR 134/96 nella causa sui negozi Benetton). Nondimeno, i tribunali tedeschi potrebbero probabilmente riconoscere il diritto all’indennità nel caso del franchising distributivo (in cui il franchisee compra i prodotti dal franchisor), qualora la situazione sia simile alla distribuzione e all’agenzia commerciale. Questo potrebbe essere il caso in cui il franchisee sia stato incaricato di distribuire i prodotti del franchisor e solo il franchisor abbia, al termine del contratto, diritto ad accedere ai nuovi clienti acquisiti dal franchisee durante il contratto (cfr. Corte Federale tedesca, decisione del 29 aprile 2010, R.G. n. I ZR 3/09, Joop). Nessun diritto all’indennità, tuttavia, può essere fatto valere se
- il franchise ha ad oggetto un business anonimo di massa e i clienti continuano ad essere regolari soltanto di fatto (decisione del 5 febbraio 2015, nella causa sulla catena di panetterie “Kamps”) o
- nei franchising di produzione (contratti di imbottigliamento, ecc.), in cui il franchisor o titolare della licenza non opera nello stesso identico settore dei prodotti distribuiti dal franchisee / licenziatario (decisione del 29 aprile 2010, R.G. n. I ZR 3/09, Joop).
4. Nel diritto tedesco, il diritto all’indennità dei distributori – o, potenzialmente, dei franchisee – può ancora essere escluso:
- scegliendo di applicare al contratto un altro diritto sostanziale che non preveda un’indennità;
- obbligando il fornitore a bloccare, non usare e, se necessario, cancellare i dati della clientela alla cessazione del contratto (Corte Federale tedesca, decisione del 5 febbraio 2015, R.G. n. VII ZR 315/13: “fatte salve le disposizioni riportate all’articolo [●] sotto, il fornitore deve bloccare i dati forniti dal distributore dopo che sarà terminata la partecipazione del distributore al servizio clienti, deve cessare di utilizzarli e, su richiesta del distributore, deve cancellarli.”). Sebbene tale disposizione contrattuale sembri essere diventata irrilevante alla luce della decisione del Tribunale di Norimberga sopraccitata, il Tribunale non ha fornito alcun argomento sul perché la consolidata giurisprudenza della Corte Federale non debba trovare più applicazione;
- pattuendo espressamente l’esclusione del diritto all’indennità, il che, tuttavia, potrebbe funzionare solo qualora (i) il distributore operi al di fuori dello SEE e (ii) non sussista una norma locale inderogabile che preveda tale indennità (si veda l’articolo qui).
5. Inoltre, se il fornitore accetta deliberatamente di pagare l’indennità in cambio di un solido portafoglio clienti con una quantità di dati potenzialmente utilizzabili in modo significativo (in conformità con il Regolamento UE sulla Protezione Generale dei dati), può pattuire con il distributore il pagamento di “quote d’ingresso” (“entry fees”), al fine di mitigare il peso della propria obbligazione. Il pagamento di tali quote d’ingresso o oneri contrattuali potrebbe essere posticipato fino alla cessazione del contratto e successivamente compensato con il diritto all’indennità del distributore.
6. L’indennità di fine rapporto del distributore viene calcolata sulla base del margine di guadagno conseguito con nuovi clienti apportati dal distributore o con clienti già esistenti con cui il distributore abbia sensibilmente sviluppato gli affari. Il calcolo esatto può essere estremamente complesso ed i tribunali tedeschi applicano differenti metodi. In totale, l’indennità non può superare la media dei margini annualmente conseguiti dall’agente con tali clienti negli ultimi anni.
According to the well-established jurisprudence of the Spanish Supreme Court, a distributor may be entitled to compensation for clientele if article 28 of the Agency Law is applied analogically (the “inspiring idea“). This compensation is calculated for the agent based on the remunerations received in the last five years.
In a distribution contract, however, there are no “remunerations” such as those received by the agent (commissions, fixed amounts or others), but “commercial margins” (differences between the purchase and resale price). The question is, then, what magnitude to consider for the clientele compensation in a distribution contract: either the “gross margin” (the aforementioned difference between the purchase price and the resale price), or the “net margin” (that same difference but deducing other expenses and taxes in which the distributor had incurred in).
The conclusion until now seemed to be to calculate the compensation of the distributor from his “gross margins” since this is a magnitude more comparable to the “remuneration” of the agent: other expenses and taxes of the distributor could not be deduced in the same way as in an agency contract neither expenses and taxes were deduced.
The Supreme Court (November 17, 1999) had pointed out that in order to calculate compensation for clients “it is more appropriate to consider it as a gross contribution, since with it the agent must cover all the disbursements of its commercial organization“. In addition, the “earnings obtained” “do not constitute remuneration in the same sense” (October 21, 2008), given that such “benefits“, “belong to the internal scope of the agent’s own organization” (March 12, 2012).
Recently, however, the judgment of the Supreme Court of March 1, 2017 (confirmed by another of May 19, 2017) considers that the determination of the amount of clientele compensation in a distribution contract cannot be based on the “gross margins” obtained by the distributor, but in the “net margin”. To reach this conclusion, the Court refers to a judgment of the same court of 2016 and to others of 2010 and 2007.
Does this imply a change in the case-law? In my opinion, this reading that the Supreme makes is not correct. Let’s see why.
In the judgment of March 2017, the disjunctive between gross or net margin is mentioned in the Second Legal Argument and refers to the ruling of 2016.
In that judgment of 2016 it was said that although in another of 2010 it was not concluded whether the calculation had to be made on gross or net margins, in a previous one of 2007, it was admitted that what was similar to the remuneration of the agent was the net profit obtained by the distributor (profits once deduced expenses and taxes) and not the margin that is the difference between purchase and resale prices.
Now, in my opinion, in the judgment of March 2017 the Supreme Court is referring in last instance to the judgement 296/2007 for something that the latter did not say. In 2007, the Supreme Court did not quantify clientele compensation, but rather damages. More specifically, and after stating that “the compensation for customers must be requested clearly in the lawsuit, without confusion or ambiguity“, the Court concluded that the Chamber “must resolve what corresponds according to the terms in which the debate was raised…in the initial lawsuit. And since…an indemnity of damages was interested mainly based on the time that the relationship had lasted…the solution more adjusted to the jurisprudence of this Court…consists in fixing as indemnification of damages an amount equivalent to the net benefits that [were] obtained by the distribution of the products…during the year immediately prior to the termination of the contract“. Therefore, in that the judgment of 2007 the Court did not decide on clientele compensation, but on damages.
In this way, the conclusion reached in 2007 to calculate compensation for damages on net margins, was transferred without further analysis to 2016 but for the calculation of clientele compensation. This criterion is now reiterated in the judgments of 2017 almost automatically.
In my opinion, however, and despite the jurisprudential change, the thesis that should prevail is that in order to apply analogically clientele compensation in distribution contracts, the magnitude equivalent to the “remuneration” of the agent is the “gross margin” obtained by the distributor and not its “net margin”: it does not make much sense that if the analogy is applied to recognize the clientele compensation to a distributor, it is deducted from its gross margins amounts to reach its margin or net profit. The agent also has his expenses and also pays his taxes starting from his “remunerations” and nothing in Directive 86/653/EEC nor in the Agency Contract Act allows to deduce such magnitudes to calculate his clientele compensation. In my opinion, therefore, and in line with this, distributors should be equal: the magnitudes that could be compared should be the (gross) retributions of the agent with the (gross) margins of the distributor (i. e. the difference between purchase and resale price).
In conclusion, judgments of March 1 and May 19, 2017 insist on what I consider a prior mistake and generate additional confusion to an issue that has already been discussed: the analogical application of clientele compensation to the distribution contracts and the calculation method.
Updating Notice (January 27, 2020)
In a recent Order (“Auto”) of the Supreme Court of November 20, 2019 (ATS 12255/2019 of inadmissibility of an appeal), the Court has had occasion to return to this matter and to confirm the criteria of the last jurisprudence: that in the distribution contracts, the magnitude to consider to apply the analogy and calculate the goodwill indemnity are the “net margins”.
In this procedure, a distributor appealed the decision of the Provincial Court of Barcelona that recognized compensation based on net margins and not gross margins. Said distributor requested the Supreme Court to annul said judgment on the grounds that it was taken following the latest jurisprudence, erroneous according to previous one in the appellant’s opinion.
The Supreme Court, however, seems to confirm that, contrary to the thesis that I defended above in this Post, « there is no alleged error in the most recent jurisprudence in the analogical interpretation of art. 28.3 of the Agency Law for the distribution contract, nor, therefore, the need to review the most recent jurisprudence on the subject ». Consequently, if the Supreme Court does not review its latest jurisprudence and considers that the judgment that applied the net margins was acceptable, we must consider that the magnitude to be considered in the compensation for clientele in distribution contracts is that of the net margins and not gross margins
With this decision it seems (or just “its seems”?), therefore, that the Court settles the discussion that, however and in my opinion, will nevertheless continue to rise to numerous discussions.
Quick summary – Under Swiss law, a distributor may be entitled to a goodwill indemnity after termination of a distribution agreement. The Swiss Supreme Court has decided that the Swiss Code of Obligations, which provides commercial agents with an inalienable claim to a compensation for acquired customers at the end of the agency relationship, may be applied by analogy to distribution relationships under certain circumstances.
In Switzerland, distribution agreements are innominate contracts, i.e., agreements which are not specifically governed by the Swiss Code of Obligations (“CO”). Distribution agreements are primarily governed by the general provisions of Swiss contract law. In addition to that, certain provisions of Swiss agency law (articles 418a et seqq. CO) may be applied by analogy to distribution relationships.
Particularly with regard to the consequences of a termination of a distribution agreement, the Swiss Supreme Court has decided in a leading case of 2008 (BGE 134 III 497) concerning an exclusive distribution agreement that article 418u CO may be applied by analogy to distribution agreements. Article 418u CO entitles commercial agents to a goodwill indemnity (sometimes also referred to as “compensation for clientele“) at the end of the agency relationship. The goodwill indemnity serves as a mean to compensate an agent for “surrendering” its customer base to the principal upon termination of the agency relationship.
The assessment whether a distributor is entitled to a goodwill indemnity consists of two stages: In a first stage, it is necessary to analyse whether the requirements stipulated by the Swiss Supreme Court for an analogous application of article 418u CO to the distribution relationship at stake are met. If so, it must be analysed, in a second stage, whether all requirements for a goodwill indemnity set forth in article 418u CO are fulfilled.
Application by analogy of article 418u CO to the distribution agreement
An analogous application of Article 418u CO to distribution agreements requires that the distributor is integrated to a large extent into the supplier’s distribution organisation. Because of such strong integration, distributors must find themselves in an agent-like position and dispose of only limited economic autonomy.
The following criteria indicate a strong integration into the supplier’s distribution organisation:
- The distributor must comply with minimum purchase obligations.
- The supplier has the right to unilaterally change prices and delivery terms.
- The supplier has the right to unilaterally terminate the manufacturing and distribution of productscovered by the agreement.
- The distributor must comply with minimum marketing expenditure obligations.
- The distributor is obliged to maintain minimum stocks of contract products.
- The distribution agreement imposes periodical reporting obligations (e.g., regarding achieved sales and activities of competitors) on the distributor.
- The supplier is entitled to inspect the distributor’s books and to conduct audits.
- The distributor is prohibited from continuing distributing the products following the end of the distribution relationship.
The more of these elements are present in a distribution agreement, the higher the chance that article 418u CO may be applied by analogy to the distribution relationship at stake. If, however, none or only a few of these elements exist, article 418u CO will most likely not be applicable and no goodwill indemnity will be due.
Requirements for an entitlement to a goodwill indemnity
In case an analogous application of article 418u CO can be affirmed, the assessment continues. It must then be analysed whether all requirements for a goodwill indemnity set forth in article 418u CO are met. In that second stage, the assessment resembles the test to be carried out for “normal” commercial agency relationships.
Applied by analogy to distribution relationships, article 418u CO entitles distributors to a goodwill indemnity in cases where four requirements are met:
- Considerable expansion of customer base by distributor
First, the distributor’s activities must have resulted in a “considerable expansion” of the supplier’s customer base. The distributor’s activities may not only include targeting specific customers, but also building up a new brand of the supplier.
Due to the limited case law available from the Swiss Supreme Court, there is legal uncertainty as to what “considerable expansion” means. Two elements seem to be predominant: on the one hand the absolute number of customers and on the other hand the turnover achieved with such customers. The customer base existing at the beginning of the distribution relationship must be compared to the customer base upon termination of the agreement. The difference must be positive.
- Supplier must continue benefitting from customer base
Second, considerable benefits must accrue to the supplier even after the end of the distribution relationship from business relations with customers acquired by the distributor. That second requirement includes two important aspects:
Firstly, the supplier must have access to the customer base, i.e., know who customers are. In agency relationships, this is usually not an issue since contracts are concluded between customers and the principal, who will therefore know about the identity of customers. In distribution relationships, however, knowledge of the supplier about the identity of customers regularly requires a disclosure of customer lists by the distributor, may it be during or at the end of the distribution relationship.
Secondly, there must be some loyalty of the customers towards the supplier, so that the supplier can continue doing business with such customers after termination of the distribution relationship. This is the case, e.g., if retailers acquired by a former wholesale distributor continue buying products directly from the supplier once the relationship with the wholesale distributor ended. Furthermore, a supplier may also continue benefitting from customers acquired by the distributor if it can make profitable after-sales business, e.g., by supplying consumables, spare parts and providing maintenance and repair services.
Swiss case law distinguishes between two different kinds of customers: personal customers and real customers. The former are linked to the distributor because of a special relationship of trust and will usually remain with the distributor once the distribution relationship comes to an end. The latter are attached to a brand or product and normally follow the supplier. In principle, only real customers may give rise to a goodwill indemnity.
The development of the supplier’s turnover after the end of a distribution relationship may serve as an indication for the loyalty of customers. A sharp downfall of the turnover and a need on the part of the supplier (or new distributor) to acquire new or re-acquire former customers suggests that customers are not loyal, so that no goodwill indemnity would be due.
- Equitability of goodwill indemnity
Third, a goodwill indemnity must not be inequitable. The following circumstances could render a goodwill indemnity inequitable:
- The distributor was able to achieve an extraordinarily high margin or received further remunerations that constitute a sufficient consideration for the value of customers passed on to the supplier.
- The distribution relationship lasted for a long time, so that the distributor already had ample opportunity to economically benefit from the acquired customers.
- In return for complying with a post-contractual non-compete obligation, the distributor receives a special compensation.
In any event, courts dispose of a considerable discretion when deciding whether a goodwill indemnity is equitable.
- Termination not caused by distributor
Fourth, the distribution relationship must not have ended for a reason attributable to the distributor.
This will notably be the case if the supplier has terminated the distribution agreement because of a reason attributable to the distributor, e.g., in case of a breach of contractual obligations or an insufficient performance by the distributor.
Furthermore, no goodwill indemnity will be due in case the distributor has terminated the distribution agreement itself, unless such termination is justified by reasons attributable to the supplier (e.g., a violation of the exclusivity granted to the distributor by the supplier).
A goodwill indemnity cannot only be due in case a distribution agreement for an indefinite period of time ended due to a notice of termination, but also in case of the expiry respectively non-renewal of a fixed-term distribution relationship.
Quantum of a goodwill indemnity
Where article 418u CO is applicable by analogy to a distribution relationship and all above-mentioned requirements for a goodwill indemnity are met, the indemnity payable to the distributor may amount up to the distributor’s net annual earnings from the distribution relationship, calculated as the average earnings of the last five years. Where the distribution relationship lasted shorter, the average earnings over the entire duration of the distribution relationship are decisive.
In order to calculate the net annual earnings, the distributor must deduct from the income obtained through the distribution relationship (e.g., gross margin, further remunerations etc.) any costs linked to its activities (e.g., marketing expenses, travel costs, salaries, rental fees etc.). A loss-making business cannot give rise to a goodwill indemnity.
In case a distributor marketed products from various suppliers, it must calculate the net annual earnings on a product-specific basis, i.e., limited to the products from the specific supplier. The distributor cannot calculate a goodwill indemnity on the basis of its business as a whole. Fixed costs must be allocated proportionally, to the extent that they cannot be assigned to a specific distribution relationship.
Mandatory nature of the entitlement to a goodwill indemnity
Suppliers regularly attempt to exclude goodwill indemnities in distribution agreements. However, if an analogous application of article 418u CO to the distribution agreement is justified and all requirements for a goodwill indemnity are met, the entitlement is mandatory and cannot be contractually excluded in advance. Any such provisions would be null and void.
Having said that, specific provisions in distribution agreements dealing with a goodwill indemnity, as, e.g., contractual provisions that address how the supplier shall compensate the distributor for acquired customers, still remain relevant. Such rules could render an entitlement to a goodwill indemnity inequitable.
Are insurers liable for breach of the GDPR on account of their appointed intermediaries?
Insurers acting out of their traditional borders through a local intermediary should choose carefully their intermediaries when distributing insurance products, and use any means at their disposal to control them properly. Distribution of insurance products through an intermediary can be a fast way to distribute insurance products and enter a territory with a minimum of investments. However, it implies a strict control of the intermediary’s activities.
The reason is that Insurers in FOS can be held jointly liable with the intermediary if this one violates personal data regulation and its obligations as set by the GDPR (Regulation 2016/679 of 27 April 2016 on the protection of natural persons with regard to the processing of personal data and on the free movement of such data).
In a decision dated 18 July 2019 , the CNIL (Commission Nationale Informatique et Libertés), the French authority in charge of personal data protection rendered a decision against ACTIVE ASSURANCE, a French intermediary, for several breaches of the GDPR. The intermediary was found guilty and fined EUR 180,000 for failing to properly protect the personal data of its clients. Those were found easily accessible on the web by any technician well versed in data processing. Moreover, the personal access codes of the clients were too simple and therefore easily accessible by third parties.
Although in this particular case insurers were not fined by the CNIL, the GDPR considers that they can be jointly liable with the intermediary in case of breach of personal data. In particular, the controller is liable for any acts of the processor he has appointed, this one being considered as a sub-contractor (clauses 24 and 28 of the GDPR).
This illustrates the risks to distribute insurance products through an intermediary without controlling its activities. Acting through intermediaries, in particular for insurance companies acting from foreign EU countries in FOS under the EU Directive on freedom of insurance services (Directive 2016/97 of 20 January 2016 on insurance distribution) requires a strict control through enacting contractual dispositions whereas are defined:
- a clear distribution of the duties between insurer and distributor (who is controller/joint controller/processor ?) as regards technical means used for protecting personal data (who shall do/control what ?) and legal requirements (who must report to the authorities in case of breach of security/ who shall reply to requests from data owners?, etc.);
- the right of the insurer to audit the distributors’ technical means used for this protection at any time during the term of the contract. In addition to this, one should always keep in mind that this audit should be conducted efficiently by the insurer at regular times. As Napoleon rightly said: “You can govern from afar, but you can only administer closely”.
Distribuzione digitale – Quale strategia?
L’importanza della distribuzione via internet è aumentata nel corso degli anni, così come le restrizioni poste all’interno di contratti di distribuzione. Soprattutto i produttori di marchi rinomati mirano tanto a trarre vantaggio dalle opportunità del mercato digitale, quanto a preservare l’immagine dei loro prodotti. Conseguentemente, è frequente l’imposizione di diversi tipi di restrizioni sui distributori, come emerge dal seguente grafico (fonte: Commissione Europea, Relazione finale sull’indagine settoriale sul commercio elettronico, 10.05.2017):
Tali misure compaiono nella distribuzione selettiva, in quella esclusiva, nel franchising e nella distribuzione aperta. Alcune misure perseguono interessi legittimi, come quello di assicurare una distribuzione di alta qualità, mentre altre misure possono concretizzarsi in restrizioni anticoncorrenziali del territorio e del prezzo di rivendita. Mentre le restrizioni nel business online sono cresciute, la loro regolamentazione segue a rilento: la Corte di giustizia UE ha posto una prima pietra miliare nel 2011 con la sua decisione “Pierre Fabre” sul divieto generale di vendite su internet e, nel 2018, ne ha posta un’altra con la famosa pronuncia “Coty Germany” – entrambe riguardanti la distribuzione di prodotti (cosmetici) di lusso. Risultato:
“Un fornitore di prodotti di lusso può vietare ai suoi distributori autorizzati di vendere
i prodotti su una piattaforma Internet terza” (Comunicato stampa n. 132/17 del 6 dicembre 2017).
O, più brevemente l’Alta Corte Regionale di Francoforte nel 2018:
“Prodotti di lusso giustificano divieti di vendita online”.
(Comunicato stampa n. 30/2018 del 12 luglio 2018, in applicazione dei principi guida della suprema corte europea sui divieti di vendite online).
Per domande a cui sono state date risposte, altre ne sono sorte: solo il produttore di prodotti di lusso può proibire vendite online ai propri distributori? E se sì, che cos’è lusso? L’autorità per la concorrenza tedesca, il Bundeskartellamt, nella sua prima reazione dichiarava che la sentenza Coty dovrebbe applicarsi esclusivamente a prodotti originariamente di lusso:
“Produttori di marca non hanno ancora carte blanche su #divieti di piattaforme. Primo giudizio: “Limitato impatto sulla nostra attività” (Twitter, 6 dicembre 2017).
La Commissione Europea ha preso posizione in senso opposto, stabilendo che l’argomento della Corte nella decisione Coty dovrebbe applicarsi anche alla distribuzione di altri prodotti, senza aver riguardo al loro carattere di lusso:
“Le argomentazioni apportate dalla Corte sono valide indipendentemente dalla categoria di prodotto coinvolta (ossia beni di lusso nel caso di specie) e sono ugualmente applicabili a prodotti non di lusso. Che un divieto di usare piattaforme abbia l’obiettivo di restringere il territorio nel quale, o i consumatori a cui il distributore può vendere i prodotti, o se limita le vendite passive del distributore, non può logicamente dipendere dalla natura del prodotto coinvolto.” (Competition Policy Brief, aprile 2018)
Più di un anno dopo la decisione Coty, le norme non sono ancora al 100% chiare: tra i tribunali tedeschi, l’Alta Corte Regionale di Amburgo ha autorizzato il divieto di effettuare vendite su piattaforme terze anche con riguardo a prodotti non di lusso, i quali siano di alta qualità (decisione del 22 marzo 2018, fascicolo n. 3 U 250/16) – nella fattispecie, con riguardo a un sistema di distribuzione selettiva per integratori alimentari e cosmetici.
“se i beni venduti sono di alta qualità e la distribuzione è combinata a una consulenza al consumatore e servizi di assistenza paralleli, con lo scopo, tra gli altri, di illustrare al consumatore un prodotto finito e nel suo complesso sofisticato, di alta qualità e dal prezzo alto e di costruire o mantenere una specifica immagine del prodotto” (testo tradotto dalla versione originale in tedesco).
Di recente, il Bundeskartellamt tedesco ha preso nuovamente posizione, riaffermando la propria prima posizione:
“Le dichiarazioni della Corte di Giustizia UE, a tal riguardo, sono limitate a prodotti di lusso e non possono essere facilmente trasferite ad altri prodotti di marca (di alta qualità).” (Wettbewerbsbeschränkungen im Internetvertrieb nach Coty und Asics – wie geht es weiter?, 02.10.2018).
I fornitori i quali vogliano agire in modo prudente dovrebbero utlizzare ricorrere con cautela a divieti di usare piattaforme al di fuori della distribuzione selettiva di prodotti di lusso. Per uno sguardo generale sulla prassi corrente con clausole contrattuali modello, vedi Rohrßen, Vertriebsvorgaben im E-Commerce 2018: Praxisübersicht und Folgen des “Coty”-Urteils des EuGH, in: GRUR-Prax 2018, 39-41 (in tedesco).
La distribuzione diretta
In alternativa, o in aggiunta, alle restrizioni in capo ai distributori i produttori si affidano spesso alla distribuzione diretta, vuoi per conto proprio con i propri dipendenti, vuoi attraverso agenti commerciali o tramite commissionari. Ciò significa che il rischio della distribuzione cade soltanto in capo al produttore e ciò comporta un grande vantaggio: i fornitori sono fondamentalmente svincolati dalle restrizioni del diritto antitrust e possono persino stabilire il prezzo di rivendita. Questo ha portato ad un aumento della distribuzione diretta in tutte le categorie di prodotti, compreso anche il settore automobilistico.
Quando il contratto di agenzia è da considerarsi internazionale?
Secondo le norme di diritto internazionale privato vigenti in Italia (Art.1 Reg. 593/08 “Roma I”) il contratto si considera internazionale “in circostanze che comportino un conflitto di leggi”.
Le circostanze che più spesso comportano un conflitto di leggi in un contratto di agenzia, rendendolo quindi “internazionale”, sono (i) l’ubicazione della sede del preponente in un Paesi diverso dalla sede dell’agente; oppure (ii) l’esecuzione del contratto all’estero, anche quando il preponente e l’agente abbiano sede nello stesso Paese.
Quando si applica la legge italiana ad un contratto di agenzia?
Sempre in base al Regolamento “Roma I”, in linea di principio il diritto italiano si può applicare ad un contratto di agenzia internazionale (i) se viene scelto delle parti come legge regolatrice del contratto (in modo espresso o nelle altre modalità indicate dall’art.3); oppure (ii) in mancanza di scelta, quando l’agente risieda o abbia sede in Italia (secondo il concetto di “residenza” contenuto all’art.19).
Qual è la disciplina principale del contratto di agenzia in Italia?
In Italia, le norme sostanziali che regolano il contratto di agenzia ed in particolare il rapporto fra le parti preponente ed agente, sono prevalentemente contenute negli articoli da 1742 a 1753 del Codice Civile, che sono stati modificati in più occasioni con il recepimento della Direttiva 653/86/CE.
Qual è il ruolo degli accordi economici collettivi?
Da molti anni, in Italia, i contratti di agenzia sono regolati anche dagli Accordi Economici Collettivi (AEC), ovvero quegli accordi che vengono stipulati periodicamente dalle associazioni rappresentative dei preponenti e degli agenti in vari settori (industria, commercio e diversi altri).
Dal punto di vista della loro efficacia, se ne distinguono due tipologie: gli AEC aventi forza di legge (efficacia “erga omnes”) i quali peraltro contengono norme piuttosto generali e hanno quindi un campo di applicazione limitato; e gli AEC “di diritto comune”, che si sono via via avvicendati nel corso degli anni e sono finalizzati a vincolare solo preponenti ed agenti iscritti a tali associazioni.
In generale, gli Accordi Economici Collettivi intendono recepire le norme del Codice Civile (e, di riflesso, quelle della Direttiva 653/86) ma – soprattutto quelli di diritto comune – introducono deroghe anche rilevanti. Ad esempio, essi consentono al preponente modifiche unilaterali alla zona, ai prodotti, alla clientela, alla misura della provvigione; regolano in maniera parzialmente diversa la durata del periodo di preavviso per il recesso dai contratti a tempo indeterminato; quantificano il compenso per il patto di non concorrenza post-contrattuale; hanno una peculiare disciplina in materia di indennità di risoluzione del rapporto.
Sull’indennità di fine rapporto, in particolare, gli AEC hanno generato non pochi problemi di conformità con la Direttiva 653/86/CE, di cui si è occupata anche la Corte di Giustizia CE ma tuttora non del tutto risolti per effetto di una costante giurisprudenza delle Corti italiane che, di fatto, mantiene tale trattamento in vigore.
La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che i contratti collettivi abbiano una sfera di applicazione geografica limitata al territorio italiano.
Gli AEC regolano dunque automaticamente il contratto di agenzia se la legge regolatrice è quella italiana e se il contratto viene eseguito dall’agente in Italia, ma (nel caso degli accordi di diritto comune) all’ulteriore condizione che entrambe le parti siano iscritte ad una delle associazioni che hanno stipulato tali Accordi (secondo una parte della dottrina, è sufficiente che vi sia iscritta anche solo la parte preponente).
Anche in mancanza di tali condizioni cumulative, tuttavia, gli AEC di diritto comune potranno ugualmente valere se siano richiamati espressamente nel contratto, oppure se le loro disposizioni vengano costantemente applicate dalle parti.
Quali sono gli altri principali requisiti e adempimenti in materia di contratto di agenzia?
L’Enasarco
L’Enasarco è una Fondazione di diritto privato alla quale devono, per legge, essere obbligatoriamente iscritti gli agenti in Italia.
La Fondazione Enasarco amministra principalmente un fondo di previdenza integrativo per gli agenti ed un fondo per l’indennità di risoluzione del rapporto di agenzia (calcolata secondo i criteri dell’AEC di riferimento per il settore).
Tipicamente, nei contratti di agenzia “domestici”, il preponente iscrive l’agente presso l’Enasarco e versa i contributi ad entrambi i fondi durante l’intero rapporto.
Tuttavia, mentre l’iscrizione e il versamento dei contributi previdenziali sono sempre obbligatori in quanto previsti dalla legge, viceversa la contribuzione al FIRR (fondo indennità risoluzione del rapporto) è obbligatoria solo in quei contratti di agenzia ai quali si applicano gli AEC di diritto comune.
Quali sono le regole per i contratti internazionali?
Per quanto riguarda l’iscrizione all’Enasarco, a fronte di una disciplina legislativa e regolamentare non molto chiara, un contributo interpretativo importante è stato fornito dal Ministero del Lavoro nel 2013 in risposta ad un interpello (19.11.13 n.32).
Il Ministero, riferendosi alla disciplina europea (Regolamento CE n.883/2004 come modificato dal Regolamento (CE) n. 987/2009) ha chiarito che l’iscrizione all’Enasarco è obbligatoria nei seguenti casi:
- agenti che operano sul territorio italiano in nome e per conto di preponenti italiani o esteri aventi una sede o una dipendenza in Italia;
- agenti italiani o stranieri che operano in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri anche se privi di sede o dipendenza in Italia;
- agenti che risiedono in Italia e qui svolgono una parte sostanziale della loro attività;
- agenti che non risiedono in Italia, ma hanno in Italia il proprio centro di interessi;
- agenti che operano abitualmente in Italia ma si recano a svolgere attività esclusivamente all’estero per una durata non superiore a 24 mesi.
Nei rapporti di agenzia da eseguirsi al di fuori del territorio UE, non applicandosi i Regolamenti appena citati, sarà opportuno verificare di volta in volta se l’obbligo di osservare la legislazione previdenziale italiana sia previsto da eventuali trattati internazionali di cui facciano parte i Paesi delle due parti.
Camera di Commercio e Registro delle Imprese
Chiunque intenda avviare un’attività quale agente di commercio in Italia, ha l’obbligo di effettuare una SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) alla Camera di Commercio territorialmente competente la quale iscrive l’agente al Registro delle Imprese se l’agente ha forma di impresa, o viceversa ad una sezione apposita del REA (Repertorio delle Notizie Economiche ed Amministrative) della Camera stessa (D. Lgs.59 del 26.3.2010 che ha recepito a Direttiva 2006/123/CE “Direttiva Servizi”).
Tali formalità hanno sostituito l’iscrizione al vecchio “ruolo agenti” che è stato soppresso dalla suddetta legge, la quale prevede inoltre tutta una serie di requisiti che gli agenti debbono avere al fine di poter avviare l’attività ( tali requisiti riguardano istruzione, esperienza, assenza di condanne, ecc.).
Benché la mancanza della suddetta iscrizione non comporti la nullità del contratto, è opportuno che il preponente, prima di conferire l’incarico ad un agente italiano, si accerti che questi l’abbia effettuata in quanto è comunque obbligatoria.
Competenza territoriale per le controversie (art.409 e seguenti c.p.c.)
In base agli artt.409 e seguenti del Codice di Procedura Civile, nel caso in cui l’agente svolga la sua prestazione contrattuale a carattere prevalentemente personale anche se in forma autonoma (agente “parasubordinato”) la sottoposizione del contratto alla legge italiana ed al foro italiano comporterà che eventuali controversie derivanti dal contratto di agenzia saranno inderogabilmente sottoposte al Giudice del lavoro nella circoscrizione in cui si trova il domicilio dell’agente (v. art.413 c.p.c.) ed il processo seguirà il “rito del lavoro” ovvero regole procedurali analoghe a quelle valevoli nelle controversie nell’ambito del lavoro subordinato.
Questa regola, in linea di principio, varrà quando l’agente stipuli il contratto personalmente o come ditta individuale, mentre l’opinione prevalente è che non si applichi nel caso in cui l’agente rivesta la forma di società.
Applicazione delle regole ai casi più frequenti di contratto internazionale di agenzia
Cerchiamo ora di adattare le regole sopra descritte alle situazioni più frequenti di contratto internazionale di agenzia, tenendo presente che si tratta di semplici esempi schematici, dovendosi in realtà verificare di volta in volta con attenzione le circostanze del caso specifico.
Preponente italiano ed Agente estero – contratto da eseguirsi all’estero
Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti, salve le eventuali norme imperative del Paese dove l’agente risiede od opera, secondo le norme del Regolamento Roma I.
AEC: non regolano il contratto automaticamente (in quanto l’agente opera all’estero) ma solo ove espressamente richiamati o di fatto applicati. Questo potrebbe accadere più o meno intenzionalmente, ad esempio se il preponente italiano decidesse di adottare anche per gli agenti esteri gli stessi modelli di contratto utilizzati per agenti italiani, contenenti riferimenti agli accordi economici collettivi.
Enasarco: non vi sono normalmente obblighi di iscrizione né di contribuzione a favore dell’agente non italiano che risiede e svolge l’attività contrattuale esclusivamente all’estero.
Camera di Commercio: non vi è obbligo di iscrizione stanti i suddetti presupposti.
Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.): se fosse validamente pattuito il foro italiano, l’agente estero anche se persona fisica o ditta individuale non potrebbe far valere questa disposizione per spostare la causa presso le corti del proprio Paese in quanto l’art.413 c.p.c. è una norma sulla competenza interna che presuppone l’ubicazione dell’agente in Italia. Inoltre, tale norma dovrebbe soccombere di fronte alle regole di giurisdizione stabilite dalla legislazione UE, come ha stabilito la Corte di Cassazione italiana e come ritiene autorevole dottrina.
Preponente estero ed Agente italiano – contratto da eseguirsi in Italia
Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti oppure, anche in mancanza di scelta, per effetto della residenza o sede in Italia dell’agente.
AEC: quelli aventi forza di legge (“erga omnes”) regolano il contratto, mentre quelli di diritto comune difficilmente si applicheranno in modo automatico (il preponente estero solitamente non sarà iscritto alle associazioni italiane che hanno stipulato l’AEC) ma potrebbero nondimeno valere se richiamati nel contratto o se applicati di fatto.
Enasarco: il preponente estero dovrà iscrivere l’agente italiano all’Enasarco, pena sanzioni e/o richieste di risarcimento danni da parte dell’agente. In conseguenza dell’iscrizione, il preponente dovrà assolvere all’obbligo di contribuzione previdenziale mentre non dovrebbe sussistere l’obbligo di versamento al Fondo Indennità di Fine Rapporto. Tuttavia, un preponente che effettuasse i versamenti periodici al FIRR anche quando non dovuti, potrebbe ritenersi avere tacitamente accettato gli AEC come applicabili al rapporto di agenzia.
Camera di commercio: l’agente italiano dovrà risultare iscritto alla CCIAA ed a questo proposito è opportuno che il preponente verifichi che lo sia effettivamente, prima di stipulare il contratto.
Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.):se il foro competente è quello italiano (per scelta delle parti o anche in assenza di scelta in quanto luogo della prestazione dei servizi secondo il Regolamento 1215/12) e se l’agente è persona fisica o ditta individuale situata in Italia, varrà la regola in questione.
Preponente italiano ed Agente italiano – contratto da eseguirsi all’estero
Legge italiana: regola il contratto se scelta dalle parti oppure, in mancanza di qualsiasi scelta, se l’agente risieda o abbia sede in Italia.
AEC: non dovrebbero valere (eseguendosi il contratto all’estero) se non espressamente richiamati o applicati.
Enasarco: secondo l’orientamento del Ministero del Lavoro, l’obbligo di iscrizione sussiste qualora l’agente, pur essendo stato incaricato per l’estero, risieda e svolga una parte sostanziale dell’attività in Italia o abbia qui il centro dei propri interessi oppure si rechi all’estero per un periodo non superiore a 24 mesi, se valgono i Regolamenti UE. In caso di rapporto da eseguirsi in Paesi extra UE, l’obbligatorietà dell’iscrizione sarà da verificare di volta in volta.
Camera di commercio: l’agente che abbia avviato l’attività e si sia giuridicamente costituito in Italia è tenuto in linea di principio ad iscriversi presso la Camera di Commercio.
Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.): la regola vale se l’agente è persona fisica o ditta individuale italiana e sia contrattualmente pattuito il foro in Italia.
Preponente estero ed agente estero – contratto da eseguirsi in Italia
Legge italiana: in linea di principio regola il contratto solo se scelta dalle parti.
AEC: se il contratto è regolato dalla legge italiana, valgono gli accordi aventi forza di legge, non invece quelli di diritto comune se non espressamente richiamati o di fatto applicati.
Enasarco: secondo l’orientamento del Ministero del Lavoro, sulla base dei Regolamenti UE l’obbligo di iscrizione potrebbe sussistere per il preponente estero anche a favore dell’agente che risieda all’estero se opera in Italia o se ha in Italia il centro dei propri interessi. Viceversa, il caso andrà verificato di volta in volta in base alle norme vigenti.
Camera di commercio: in linea di principio, l’agente che si sia giuridicamente costituito all’estero non è tenuto ad assolvere agli obblighi di iscrizione in Italia. Tuttavia, la questione potrebbe essere più complessa se l’agente avesse una sede e svolgesse prevalentemente la propria attività in Italia (il che potrebbe avere un impatto anche sulla determinazione del diritto applicabile).
Norme processuali (artt.409 e ss. c.p.c.): in assenza di scelta diversa, il foro italiano potrebbe essere competente in quanto luogo di prestazione dei servizi, tuttavia le norme in questione non dovrebbero applicarsi se l’agente (persona fisica o ditta individuale) non abbia una sede in Italia.
Conclusioni
Si auspica che le osservazioni svolte fino a qui, pur non esaustive, siano utili per comprendere le possibili conseguenze dell’applicazione della legge italiana ad un contratto internazionale di agenzia e per fare delle scelte oculate in sede di redazione del contratto. Come sempre, si raccomanda di non basarsi acriticamente su modelli o precedenti senza adeguata considerazione delle circostanze del caso.
„Prodotti di lusso giustificano divieti di distribuire su piattaforme terze” recita il Comunicato stampa n. 30/2018 della Corte d’Appello di Francoforte del 12.07.2018.
Dopo la sentenza Coty della CGUE, a lungo attesa (vedi l’articolo di dicembre 2017 https://www.legalmondo.com/it/2017/12/corte-di-giustizia-ue-ammette-la-restrizione-alle-vendite-online-sentenza-coty/), la Corte d’Appello di Francoforte sul Meno ha applicato le indicazioni della CGUE, (i) ribadendo la possibilità di limitare la rivendita attraverso piattaforme terze. Nel corso di questo post, inoltre, vedremo anche la (ii) recente pronuncia della Corte d’Appello di Amburgo, che ha esteso il principio della sentenza Coty anche ad altre merci dal valore qualitativo elevato, ma al di fuori del segmento del lusso. In conclusione, poi, (iii) alcuni suggerimenti pratici.
Prodotti di lusso giustificano i divieti di usare piattaforme
Ai sensi della sentenza della Corte d’Appello di Francoforte, Coty può inibire al distributore la distribuzione tramite piattaforme di terzi. Nel contratto di distribuzione selettiva adottato da Coty, ogni rivenditore era libero di instaurare cooperazioni pubblicitarie con piattaforme terze, nelle quali i clienti vengono indirizzati al negozio internet del rivenditore. Il divieto di distribuzione su market-place, sarebbe invece ammissibile già sulla base del Regolamento sulle esenzioni per categorie di accordi verticali, in quanto non rappresenterebbe una restrizione fondamentale. Il divieto di distribuzione potrebbe essere esentato persino dal divieto di cartelli nell’ambito di una distribuzione selettiva; nel presente caso sarebbe soltanto dubbio se il divieto di qualsiasi “cooperazione di vendita con una piattaforma terza riconoscibile esternamente da altri e senza riguardo alla sua concreta strutturazione stia in rapporto ragionevole con il fine perseguito” (testo tradotto dall’originale in tedesco), sia quindi proporzionato o incida sull’attività concorrenziale del rivenditore. La Corte ha lasciato aperta questa questione.
Anche altri merci di alto valore giustificano i divieti di usare piattaforme
Il caso deciso dalla Corte d’Appello di Amburgo (Decisione del 22.03.2018, fasc. n. 3 U 250/16) concerne un sistema di distribuzione selettiva qualitativo per integratori alimentari e cosmetici, il quale avviene tramite Network Marketing così come via Internet. Le linee guida distributive contengono, tra le altre cose, concrete indicazioni sulla pagina internet del rivenditore, possibilità di prendere direttamente contatto con i clienti in base al “principio della vendita di merci fatta su persona” (in quanto il sistema distributivo mira a vendere il prodotto tagliato sulle esigenze personali dei clienti nell’ambito di una consulenza personalizzata) così come della qualità dell’informazione e della rappresentazione del prodotto. Espressamente vietata sarebbe “la distribuzione … tramite eBay e altre piattaforme commerciali internet paragonabili”, in quanto esse non sarebbero conformi ai requisiti qualitativi, in ogni caso non “in base allo stato attuale” (testo tradotto dall’originale in tedesco).
Il Tribunale di prima istanza ha ritenuto ammissibile il divieto di far uso di piattaforme (Tribunale di Amburgo, sentenza del 04.11.2016, fasc. n. 315 O 396/15) – cosa che la Corte d’Appello di Amburgo ha ora confermato. Ciò in quanto, secondo la Corte d’Appello, sistemi di distribuzione selettiva qualitativi sarebbero ammissibili non solo per beni di lusso e tecnicamente dal valore alto, bensì anche per (ulteriori) merci di alto valore qualitativo, “qualora le merci distribuite siano di alta qualità e la distribuzione sia indirizzata a prestazioni accompagnatorie di consulenza e assistenza per il cliente, con cui tra l’altro si persegue il fine di spiegare al cliente un prodotto finale il quale nel complesso sia sofisticato, qualitativamente di alto valore e dal prezzo elevato e di costruire o conservare una particolare immagine del prodotto” (testo tradotto dall’originale in tedesco).
Nell’ambito di un tale sistema di distribuzione selettiva per la distribuzione di integratori alimentari e cosmetici potrebbe quindi essere ammissibile “tramite corrispondenti linee guida d’impresa, vietare al partner distributivo la distribuzione di tali merci su determinate piattaforme di vendita online, al fine di preservare l’immagine di prodotto e la prassi di una consulenza legata al cliente in grado di contribuire a creare tale immagine, così come al fine di evitare pratiche commerciali di singoli partner distributivi lesive dell’immagine del prodotto e dell’immagine, le quali siano state accertate nel passato e conseguentemente perseguite” (testo tradotto dall’originale in tedesco).
Una particolarità qui: non si trattava di “puri prodotti di prestigio“ – inoltre la Corte d’Appello non si era limitata all’accertamento che il divieto di usare piattaforme fosse ammissibile ai sensi dell’art. 2 Regolamento sulle esenzioni per categorie di accordi verticali e pratiche concordate, ma la Corte ha declinato in modo preciso e passo-passo i c.d. criteri Metro.
Conclusioni
- Internet resta un motore di crescita per beni di consumo, come anche i dati di mercato della associazione commercianti della Germania confermano: “Online-Handel bleibt Wachstumstreiber“.
- Al tempo stesso, proprio i produttori di marca vogliono una crescita regolata ai sensi delle regole del loro sistema di distribuzione e secondo le loro indicazioni. Di ciò fanno parte, proprio per prodotti di lusso e tecnicamente sofisticati così come ulteriori prodotti richiedenti una consulenza intensiva, indicazioni stringenti sulla pubblicazione della marca e sulla pubblicità (indicazioni su clausole applicabili a negozi fisici, divieti di piazze di mercato) e sui servizi da fornire (ad es. chat e/o numero telefonico con indicazioni sulla disponibilità).
- I produttori dovrebbero verificare se i loro divieti di usare piattaforme siano conformi ai requisiti della CGUE oppure se essi possono instaurare divieti di usare piattaforme – nella distribuzione selettiva, esclusiva, di franchising e in quella aperta.
- Chi vuole correre minori rischi possibili, dovrebbe, al di fuori della distribuzione selettiva di merci di lusso, essere ancora prudente con divieti di usare piattaforme – ciò in quanto anche l’Ufficio Federale dei Cartelli ha come prima reazione dichiarato che la sentenza Coty vale solo per prodotti originariamente di lusso: “#Produttori di marca non hanno, ora come prima, nessuna carta bianca per #divieti di piattaforme. Prima valutazione: Ripercussioni limitate sulla nostra prassi” (BKartA su Twitter, 6.12.2017). In senso contrario si è ora posizionata la Commissione Europea: nella sua “Competition Policy Brief” di Aprile 2018 („EU competition rules and marketplace bans: Where do we stand after the Coty judgment?“) la Commissione – alquanto tra parentesi – tiene fermo il fatto che l’argomentazione adottata dalla CGUE nel caso Coty vale anche indipendentemente dal carattere di lusso dei prodotti distribuiti:
“Gli argomenti prodotti dalla Corte sono validi indipendentemente dalla categoria di prodotti coinvolti (ossia, nel caso di specie, beni di lusso) e sono applicabili egualmente a prodotti non di lusso. Se un divieto di usare piattaforme ha l’obiettivo di restringere il territorio in cui il prodotto può essere venduto o i consumatori a cui il distributore può vendere i prodotti o se limita le vendite passive del distributore, ciò non può logicamente dipendere dalla natura del prodotto coinvolto.” (traduzione dal testo originale in inglese)
Effettivamente la Corte di Giustizia UE nella sentenza ha definito “merci di lusso” in modo ampio: come merci la cui qualità “non poggia solo sulle sue caratteristiche materiali”, bensì su valori immateriali – cosa che per quanto riguarda merci di marca generalmente risulta vero (cfr. sentenza Coty della Corte di Giustizia UE del 06.12.2017, n. 25 così come, per quanto riguarda “merci di qualità”, le Conclusioni finali del 26.07.2017 dell’Avvocato Generale presso l’UE, n. 92). Inoltre la Corte di Giustizia UE richiede soltanto che le merci siano comprate “anche” per il loro carattere di prestigio, non “soltanto” o “soprattutto” per quello. Tutto ciò gioca a favore dei produttori di marca, che pare possano assumere divieti di utilizzo di piattaforme nei loro contratti di distribuzione – quantomeno entro una quota di mercato fino a un massimo del 30%.
- Chi non ha alcun timore di affrontare rivenditori e autorità dei cartelli, può erigere divieti di utilizzo di piattaforme assolutamente anche al di fuori della distribuzione selettiva di merci di lusso – o puntare in modo ancora più forte su prodotti Premium o di lusso – come ad esempio nel caso della catena di profumi Douglas (cfr. Süddeutsche Zeitung dell’08.03.2018, pag. 15: “Attiva e non convenzionale, Tina Müller termina gli sconti presso Douglas e punta sul lusso”(traduzione dal testo originale in tedesco)).
- Per assicurare una qualità uniforme della distribuzione si possono inserire delle indicazioni qualitative stringenti, soprattutto rispetto alla distribuzione online. La lista delle possibili indicazioni qualitative è molto ampia. Tra questi, si riportano alcune “Best Practice” piuttosto frequenti:
– Il posizionamento come rivenditore (piattaforma, assortimento, comunicazione)
– la configurazione della pagina internet (qualità, l’impressione, ecc.)
– il contenuto e l’offerta di prodotto della pagina internet,
– la esecuzione delle compravendite online,
– la consulenza e il servizio clienti così come
– la pubblicità.
- Essenziale è inoltre che i produttori non possono vietare completamente il commercio internet ai rivenditori e le indicazioni distributive non possono nemmeno avvicinarsi a un tale completo divieto – come ora vedono i tribunali nel caso del divieto di usare strumenti di ricerca dei prezzi da parte di Asics, vedi a tal riguardo l’articolo dell’aprile 2018 (https://www.legalmondo.com/it/2018/04/germania-divieto-strumenti-di-comparazione-prezzi-e-pubblicita-su-piattaforme-terze/).
- Ulteriori dettagli sono presenti nelle riviste giuridiche in lingua tedesca:
– Rohrßen, Vertriebsvorgaben im E-Commerce 2018: Praxisüberblick und Folgen des „Coty“-Urteils des EuGH, in: GRUR-Prax 2018, 39-41
– Rohrßen, Internetvertrieb von Markenartikeln: Zulässigkeit von Plattform-verboten nach dem EuGH-Urteil Coty, in: DB 2018, 300-306
– Rohrßen, Internetvertrieb: „Nicht Ideal(o)“ – Kombination aus Preissuchmaschinen-Verbot und Logo-Klausel, in: ZVertriebsR 2018, 120-123
– Rohrßen, Internetvertrieb nach Coty – Von Markenware, Beauty und Luxus: Plattformverbote, Preisvergleichsmaschinen und Geoblocking, in: ZVertriebsR 2018, 277-285.
Riassunto – Si tratta di un accordo di riservatezza, spesso utilizzato nel commercio internazionale, con il quale le parti si obbligano a mantenere riservate le informazioni confidenziali o sensibili scambiate durante i negoziati. Il modello di contratto è abbastanza standard, ma per la sua validità ed efficacia è fondamentale che il contenuto sia adattato al caso concreto, come la clausola di legge applicabile, il foro competente o arbitrato, le clausole penali, la durata, la lingua del contratto.
Accade molto spesso che in differenti contesti di business venga proposta la sottoscrizione di un Non Disclosure Agreement (“NDA”) e di un Memorandum of Understanding (“MoU”) o di una Letter of Intent (“LoI”), tanto che questi tre acronimi – NDA, MoU e LoI – sono ormai diventati di uso corrente, soprattutto in occasione di negoziati internazionali.
Spesso, però, questi contratti vengono utilizzati in modo improprio e con finalità diverse da quelle con le quali si sono affermati nella prassi del commercio internazionale, con il risultato di non essere utili perché non tutelano in modo efficace gli interessi delle parti, o addirittura di essere controproducenti.
Iniziamo vedendo quali sono le caratteristiche del Non Disclosure Agreement – NDA – e come è consigliabile utilizzarlo.
Di cosa parlo in questo articolo
- Cos’è il NDA – Accordo di riservatezza
- Chi sono le parti del NDA – Accordo di riservatezza
- Quali sono le Informazioni riservate?
- La condivisione delle Informazioni riservate con terzi
- Non Disclose and Non Use Agreement
- Il divieto di concorrenza
- La durata del NDA
- Inadempimenti del NDA e clausola penale
- NDA modello e standard
- Quale legge applicabile e giudice in un NDA internazionale?
- La lingua del NDA
- Conclusioni
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NDA – Cosa significa
Il NDA è un accordo che ha la funzione di tutelare la riservatezza delle informazioni che le parti (generalmente identificate, rispettivamente, come “Disclosing Party” e “Receiving Party”) intendono condividere, in diversi possibili scenari: la trasmissione d’informazioni per una due diligence preliminare a un investimento, la valutazione di dati commerciali per un contratto di distribuzione, le specifiche tecniche di un certo prodotto oggetto di trasferimento di tecnologia, etc.
Il primo step del negoziato, infatti, richiede spesso la messa a disposizione di informazioni di diverso tipo, tecniche, finanziarie o commerciali, da parte di una o di entrambe le parti, che è necessario che rimangano riservate (di seguito le “Informazioni Riservate”) durante e dopo la conclusione del negoziato.
Chi sono le parti dell’accordo di riservatezza?
Fondamentale, partendo dalle premesse dell’accordo, è la corretta individuazione delle parti obbligate alla protezione delle informazioni e al mantenimento della riservatezza, specie quando sono coinvolti gruppi societari, in cui gli interlocutori possono essere molteplici e situati in diversi paesi. In casi simili è consigliabile obbligare la Receiving Party a garantire il mantenimento della riservatezza da parte di tutte le società del gruppo.
È inoltre importante che l’accordo individui esattamente quali persone facenti parte dell’organizzazione della Receiving Party (si pensi a: dipendenti, consulenti tecnici, professionisti, collaboratori, etc.) hanno diritto di accedere alle Informazioni, se possibile con sottoscrizione dell’accordo di riservatezza da parte di tutte le persone coinvolte.
E’ anche importante prevedere se la Receiving Party possa o meno condividere le Informazioni Riservate con soggetti terzi, ad esempio consulenti tecnici o propri collaboratori esterni. In caso positivo la tutela migliore è quella di obbligare anche tali terzi a sottoscrivere il NDA e prevedere che la Receiving Party sia responsabile (“obbligata in solido”) insieme al terzo per il rispetto delle obbligazioni del NDA.
Spesso la richiesta di far firmare a terze parti il NDA e di essere responsabile per la gestione delle Informazioni Riservate da parte dei terzi viene contestata dalla Receiving Party, solitamente con la motivazione che sarebbe troppo complessa la gestione delle attività necessarie.
Ciò è sintomo di una scarsa predisposizione al rispetto dell’obbligo di riservatezza, che va valutato con attenzione. Se la parte ricevente non intende impegnarsi affinchè terzi rispettino gli obblighi di confidenzialità e non vuole essere responsabile dei loro eventuali inadempimenti ciò espone il Titolare ad un evidente rischio di divulgazione delle informazioni, senza che sia possibile agire in modo efficace per rimediare il danno.
Suggerisco, in questi casi, di essere molto rigorosi.
Il NDA deve prevedere che:
- l’accesso alle Informazioni Riservate da parte di terzi è possibile solo se preventivamente autorizzato per iscritto dalla Disclosing Party
- il terzo autorizzato deve firmare un allegato al NDA nel quale dichiara di aver preso visione degli obblighi di riservatezza e di obbligarsi al loro rispetto
- il terzo non possa condividere le Informazioni Riservate con altri soggetti non vincolati dal NDA, salvo espressa autorizzazione del Titolare
- la Disclosing Party sia responsabile in solido del rispetto delle obbligazioni del NDA da parte dei Terzi autorizzati
Identificazione delle Informazioni Riservate
L’utilizzo di modelli di NDA riciclati, reperiti su formulari o proposti dalla controparte è prassi certamente non raccomandabile, ma purtroppo molto diffusa.
Questi modelli, molto spesso, sono generici e contengono definizioni ampie delle Informazioni Riservate ed elenchi estremamente dettagliati, che comprendono, di fatto, tutto il contenuto dell’attività societaria, includendo spesso ambiti che non sono rilevanti per l’attività oggetto di negoziato, o informazioni che non sono riservate.
Un problema di questi modelli è che è difficile, ex post, verificare se un certo dato fosse o meno compreso nelle Informazioni, ad esempio perché non si sa se fosse già in possesso della Receiving Party prima della firma del NDA.
Un’altra criticità è rappresentata dal fatto che l’elenco molto dettagliato non includa proprio la singola informazione che interessa, oppure non lo faccia in modo chiaro.
Infine accade spesso che sia difficile ricostruire quali Informazioni, dopo la firma del NDA, sono state trasmesse alla Receiving Party, e quando è avvenuta la trasmissione (ad esempio perché sono state inviate in modalità non sicura e non tracciabile, è il caso delle Informazioni spedite come allegati da una email).
Come condividere le Informazioni Riservate
Il modo migliore di procedere è quello di identificare in modo preciso solo le informazioni che è necessario condividere, indicando i documenti da trasmettere in un elenco allegato al NDA.
Ad esempio, se si condivide un certo segreto industriale (“Know-how”) la cosa migliore è limitare l’oggetto dell’accordo solo alle informazioni sensibili relative a tale segreto e specificare in quale formato (cartaceo, digitale, software, hardware) verrà condiviso.
Il passo successivo è quello di metterli a disposizione in un formato che non consenta dubbi sul fatto che sono protette dal NDA, ad esempio marchiandole con un timbro “Confidential under NDA” seguito dalla data di invio.
Altra buona prassi è prevedere che l’accesso alle Informazioni avvenga con modalità sicura e tracciabile (come un’area riservata in cloud o sul server della Disclosing Party, accessibile solo con user name e password individuali assegnati alle persone autorizzate).
Il Divieto di uso delle Informazioni
Un errore abbastanza ricorrente nei modelli di NDA è la previsione dell’obbligo per la Receiving Party del solo mantenimento della riservatezza delle Informazioni, senza impedirgliene espressamente l’utilizzo.
Soprattutto nel caso di imprese concorrenti, però, l’utilizzo è più pericoloso della divulgazione: basti pensare alla possibilità che la Receiving Party sviluppi tecnologie o brevetti basati proprio sui segreti industriali acquisiti.
E’ importante prevedere, quindi, che l’obbligo non è solo di riservatezza ma anche di non uso, evidenziando tale patto anche nel titolo dell’accordo che può diventare “Non Disclosure and Non Use Agreement”.
Non Compete Agreement – Divieto di concorrenza
Altra situazione delicata è quella il cui una Parte condivida elenchi di clienti o di agenti o di fornitori o altre informazioni commerciali sensibili.
In questo caso oltre alle obbligazioni di riservatezza e di non utilizzo al di fuori di quanto previsto nel NDA, è bene prevedere espressamente clausole di Non Concorrenza.
Ad esempio, se viene condiviso un elenco di agenti o di fornitori, l’accordo può prevedere un obbligo di astensione dal contattare direttamente certi soggetti individuati negli elenchi condivisi (questo patto è anche noto come “Non Circumvention Agreement”).
La Durata dell’obbligo di riservatezza
La funzione del NDA è proteggere le Informazioni Riservate per tutto il tempo necessario alla loro condivisione tra le Parti.
È bene, quindi, che sia indicato in modo chiaro qual è il momento finale della condivisione e – nel caso in cui la Receiving Party sia in possesso di copia delle Informazioni Riservate – prevedere l’obbligo di restituzione o distruzione dei documenti.
E’ anche fondamentale indicare per quanto tempo la Receiving Party sia tenuta a mantenere la riservatezza e non utilizzare le Informazioni dopo il periodo necessario al loro esame, ad esempio 24 mesi.
NDA – Inadempimenti
Provare e quantificare i danni derivanti una violazione dell’obbligo di riservatezza è generalmente molto complesso, perché si traduce in vantaggio / danno intangibile, come ad esempio la possibilità di sviluppare un certo prodotto concorrente in tempi rapidi proprio grazie alle Informazioni apprese.
Può essere allora utile prevedere una clausola penale, che predetermini in una certa somma il danno derivante dall’inadempimento contrattuale.
A tal fine è importante considerare che la quantificazione della penale deve essere ragionevole in relazione al danno che si presume possa scaturire dalla violazione della segretezza o dall’utilizzo delle Informazioni.
E’ consigliabile prevedere diversi importi a titolo di penale in relazione a diverse ipotesi di inadempimento (ad esempio, la registrazione o la contraffazione di un brevetto utilizzando le informazioni tecniche condivise, oppure il contatto con certi partner commerciali).
In ogni caso, prima di inserire clausole penali è opportuno valutare cosa preveda la legge applicabile all’accordo per la validità di questo patto, in particolare per la quantificazione massima della penale (si veda il punto successivo).
Il rischio, se non si conosce la legge applicabile all’accordo di non riservatezza, è che in caso di contenzioso il Giudice ritenga la clausola invalida o che la penale sia di importo eccessivo in relazione all’inadempimento e quindi la riduca ad una somma equa.
Oppure, al contrario, una parte possa essere condannata al pagamento di una penale addirittura superiore al valore del contratto (è il caso di una recente decisione della Suprema Corte Russa).
La clausola penale, infine, può essere anche utilizzata in modo tattico. Se in sede di negoziato la Receiving Party si oppone fermamente all’inserimento della penale o ne chiede la riduzione ciò può essere un indizio di una riserva mentale di inadempimento.
NDA template e Smart Contract
E’ molto agevole, oggi, procurarsi un modello di NDA: template o standard possono essere reperiti gratuitamente su vari siti come bozze generiche da completare, o essere costruiti online rispondendo ad una serie di domande per personalizzare il contratto per il caso specifico.
Il mio consiglio è di procedere con grande attenzione: per i motivi che spiego in questo post, il NDA è un accordo che deve essere redatto con grande attenzione e con l’aiuto di un consulente esperto.
Un buon modello (template) di NDA può essere una base di partenza utile, dopo di che una revisione di un esperto è un passaggio fondamentale, soprattutto per verificare che il contenuto del NDA sia conforme a quanto prevede la legge che si applica all’accordo e che le modalità di risoluzione delle controversie previste siano efficaci.
Legge applicabile e foro competente
Una cattiva abitudine è anche quella di relegare le clausole su legge applicabile e modalità di risoluzione delle controversie alla fine dell’accordo (tanto che vengono definite “Midnight Clauses”, per un approfondimento si veda questo post su Legalmondo) e di non prestare particolare attenzione al loro contenuto.
Ciò porta spesso alla previsione di clausole del tutto sbagliate (o addirittura nulle) che in caso di contenzioso vanificano la possibilità di ottenere tutela in giudizio.
La clausola che prevede la legge applicabile e la giurisdizione è fondamentale, perché da essa dipende la possibilità di far rispettare l’accordo e/o di ottenere un provvedimento giudiziario che possa essere eseguito in modo rapido ed efficace.
La questione è molto delicata perché non esiste una soluzione valida per tutti i casi e occorre considerare le specificità del singolo accordo di riservatezza.
Ci sono le Parti e dove hanno sede? Quali sono le informazioni riservate e dove possono essere utilizzate? Cosa prevede la legge del paese in cui ha sede la controparte? La modalità di risoluzione delle controversie più efficace deve essere individuata dando risposta a queste domande.
Facciamo un esempio: in un NDA con una controparte cinese è spesso controproducente scegliere di applicare la giurisdizione e la legge italiana, visto che in caso di inadempimento è solitamente necessario agire rapidamente in Cina (anche in via d’urgenza) e non presso un giudice italiano. In tal caso è consigliabile redigere il NDA con testo bilingue inglese/cinese e prevedere un arbitrato in Cina, applicando la legge cinese.
NDA in inglese, cinese o doppia lingua
Accade spesso che il modello di NDA venga proposto dalla controparte straniera e sia in inglese, o in doppia lingua (es. inglese e cinese).
E’ anche frequente che sia la parte italiana che richieda che i contratti internazionali siano in doppia lingua: ad esempio italiano e inglese o spagnolo.
In alcuni casi, per fortuna eccezionali, ho anche visto contratti in 3 lingue: italiano, inglese e cinese.
Ciò si verifica di solito perché, nonostante l’inglese sia la lingua franca del commercio internazionale, le parti sono più a loro agio nel negoziare e firmare un accordo che sia anche nella loro lingua.
La previsione di una seconda lingua può poi essere importante per essere certi che non vi siano fraintendimenti sul contenuto dell’accordo (una parte cinese non potrà invocare di non aver compreso il significato di un patto in inglese, se è disponibile una versione anche in cinese).
Infine, se necessario, una versione bilingue è immediatamente ed agevolmente utilizzabile in caso di azione legale, per rimanere sullo stesso esempio, davanti ad un giudice cinese, senza che sia necessario procedere a traduzioni (non sempre di buona qualità) nel corso del giudizio.
Qualche consiglio pratico:
- se non si conosce la seconda lingua del NDA, verificare sempre che il contenuto sia completo e conforme a quello della prima (accade spesso che nei vari passaggi di negoziato di un accordo qualcuno si dimentichi di riportare una modifica nell’altra lingua)
- se possibile richiedere una revisione del testo anche da parte di un legale madrelingua, per escludere l’utilizzo di termini impropri o non corretti
- stabilire quale versione prevale in caso di incongruenze tra una lingua e l’altra
In conclusione
Il NDA – Accordo di riservatezza è un contratto che spesso è concluso in modo frettoloso, sottovalutandone l’importanza e la complessità.
Il mio consiglio è di evitare il fai da te e affidarsi ad un legale specializzato, che sappia negoziare e redigere il NDA tenendo conto di tutte le particolarità del caso (tipo di negoziato, informazioni riservate condivise, sede delle parti e paesi in cui andrà eseguito il NDA, contenuto della legge straniera eventualmente applicabile, modalità di risoluzione delle controversie più conveniente, etc.).
Possiamo aiutarti?
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