Germany – Distribution of original products and gray market

22 Maggio 2018

  • Germania
  • Distribuzione

Quali sono le eccezioni al divieto di fissazione del prezzo di rivendita in un contratto di distribuzione?

Come note, le intese limitative della concorrenza sono vietate ai sensi dell’art. 101 TFUE, qualora pregiudichino in modo tangibile la concorrenza, a meno che l’incidenza dell’intesa sul commercio o sulla concorrenza sia trascurabile (cfr. Corte di Giustizia UE nel caso Expedia, C-226/11, sentenza del 13 dicembre 2012). Con riguardo alla domanda se sussista una non trascurabile limitazione della concorrenza, oppure se ci si trovi piuttosto in un “porto sicuro” (safe harbour) si può prendere come punto di riferimento la Comunicazione sui De-minimis della Commissione Europea. Sulla base di tale atto, un accordo si configura, in particolare, come non “trascurabile”, qualora attraverso lo stesso si persegua una limitazione della concorrenza. Ciò vale in particolare per le limitazioni fondamentali, come l’imposizione verticale di prezzi (o dei prezzi di rivendita).

Con riguardo a una campagna speciale di prodotti per la linea, la Corte d’Appello di Celle aveva visto e deciso la questione in modo sorprendentemente diverso, sostenendo che un vincolo verticale sul prezzo non costituisse una restrizione sensibile e che, pertanto, ricadrebbe al di fuori del divieto di pratiche commerciali anticoncorrenziali di cui all’art. 101 TFUE (sentenza del 07.04.2016, n. fasc. 13 U 124/15 [Kart]). Nel caso di specie, il produttore aveva sottoposto, a un gruppo di rivenditori (farmacie), una campagna speciale con uno sconto particolare: di una volta sola, limitata nel tempo e con un limite quantitativo massimo. A tal fine, i rivenditori avrebbero dovuto obbligarsi a mettere in mostra “il prodotto … in modo ben visibile, e a non scendere al di sotto del prezzo di 15,95 Euro”.

Il Tribunale di Hannover aveva invece visto nell’accordo un’inammissibile imposizione del prezzo (sentenza del 25.8.2015, n. fasc. 18 O 91/15). La Corte Federale tedesca ha ora confermato questa linea: i prezzi minimi stabiliti nell’ambito dell’offerta speciale, limitano la concorrenza nel suo complesso (cfr. punto 26) e rientrano perciò nel divieto previsto dall’art. 101 TFUE (sentenza del 17.10.2017, n. fasc. KZR 59/16). Tale decisione è conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, caso Expedia (vedi sopra), e a quella del Corte Federale tedesca stessa riguardante la richiesta di distribuire “una barretta extra” (ossia senza maggiorazione di prezzo rispetto alla confezione normale) formulata dal produttore dolciario Ferrero (sentenza dell’08.04.2003, n. fasc. KZR 3/02), perché quest’ultima decisione riguarda formalmente “il margine di aumento del prezzo riconducibile al contenuto più ampio della confezione”; non, tuttavia, la decisione, da parte del rivenditore, di fissare il prezzo di vendita minimo.

Indicazioni pratiche:

  1. La fissazione verticale del prezzo è generalmente vietata, sebbene un prezzo di vendita consigliato dal produttore (“prezzo di rivendita consigliato”) e la fissazione di prezzi massimi di vendita siano viceversa consentiti: è questo, in sostanza, il principio base della normativa sulla concorrenza in materia distributiva tedesca ed europea, per quanto riguarda l’ambito dei prezzi. Inoltre, consigli sui prezzi e prezzi massimi di vendita sono soggetti alla condizione “che questi non equivalgano ad un prezzo fisso o ad un prezzo minimo di vendita per effetto di pressioni esercitate o incentivi offerti

da una delle parti” (art. 4 lett. a) del Regolamento di esenzione per categoria di accordi verticali). Ciò significa che:

  • il produttore o il fornitore possono fornire un’indicazione,
  • il rivenditore, tuttavia, dispone di un’ampia libertà nel fissare i propri prezzi di vendita.
  1. Eccezioni sono previste, oltre che per i vincoli verticali sui prezzi dei libri o nel caso di accordi di specializzazione – se necessario per il tramite della difesa efficiente di cui all’articolo 101 co. 3 TFUE, in casi individuali, per esempio:
  • inserimento di nuovi prodotti nel mercato, oppure
  • in caso di campagne speciali limitate nel tempo, qualora ad esse si accompagni un corrispondente vantaggio in termini di efficienza, ad esempio qualora i margini di profitto siano investiti in una migliore assistenza della clientela, la quale avvantaggi tutti i consumatori e, fissando i prezzi, eviti le forme di parassitismo da parte di quei commercianti i quali non offrono alcuna forma di assistenza (cfr. Orientamenti sulle restrizioni verticali, punto 225).

Tali offerte, tuttavia, necessitano di una preparazione molto buona, in quanto i produttori stessi possono formulare soltanto per periodi molto brevi i prezzi di rivendita e soltanto qualora gli stessi siano giustificati in modo convincente da vantaggi in termini di efficienza, come ad esempio l’impedimento di casi di parassitismo.

  1. Nel caso di imposizioni di prezzi, le autorità della concorrenza diventano presto sensibili. Per esempio, multe per imposizione verticale di prezzo sono state emesse di recente in Germania. A tal riguardo, occorre fare particolare attenzione, in modo speciale negli accordi, di distribuzione e vendita. .
  2. In modo corrispondente, i reparti vendita delle imprese dovrebbero adattare i loro metodi distributivi alla giurisprudenza finora intercorsa concernente le indicazioni sui prezzi, fissazione di prezzi massimi e offerte speciali in sconto. Indicazioni pratiche vengono inoltre fornite da

Geoblocking is a discriminatory practice preventing customers (mainly on-line customers) from accessing and/or purchasing products or services from a website located in another member State, because of the nationality of the customer or his place of residence or establishment.

The EU Regulation no. 2018/302 of 28 February 2018 on addressing unjustified geoblocking and other forms of discrimination based on customers’ nationality, place of residence or place of establishment within the internal market will enter into force on 2 December 2018.

The current situation

The EU Commission carried out a “mystery shopping” survey on over 10 000 e-commerce websites in the EU. The geoblocking figures are quite high! 63% of the websites do not let shoppers to buy from another EU country (even 86% for electric household appliances and 79% for electronics and computer hardware).

The survey shows also that 92% of on-line retailers require customers to register on their website and to provide them with e-mail address, physical address and telephone number. The registration is denied most of the time because of a foreign delivery address for 27% of the websites. Almost half of the websites give no information about the place of delivery while shopping on the website although this information on delivery restrictions has to be provided in due time during the shopping process. At the end, according to this EC survey, only 37% of the websites truly allow e-shoppers to freely buy on-line from another EU country (without restriction as regards place of establishment, place of delivery and mean of payment).

On the other side, only 50% of European customers buy products from on-line shops based in another EU member State while the value and the volume of e-commerce, globally speaking increase thoroughly year after year, but only on a domestic scope not throughout Europe.

On 23 June 2017, the European Council asked for a real implementation of the Digital Single Market strategy in all its elements including cross border partial delivery, consumer protection and prohibition of undue geoblocking.

The lack of the current legal frameworks

The service directive (n°2006/123/CE) and article 101 of the TFUE address already the discrimination practices based on nationality or place or residence or establishment.

According to article 20 (2) of the service directive, the EU member States must ensure that professionals do not treat customers differently based on their place of residence or establishment or nationality (unless objective exception). On the other side, EU competition law on vertical restraints (article 101 TFUE and the block exemption regulation and its guidelines) considers restrictions on passive sales as hard core restrictions violating EU competition rules. However, both set of rules (service directive and competition law framework) appear not to be fully effective in practice.

With this respect, the recent report of the European commission about the competition enquiry in the e-commerce sector shows, among others, that geoblocking was used at a large scale within the European e-commerce sector.

The aim of the geoblocking regulation

The goal of the geoblocking regulation is to prevent professionals from implementing direct or indirect discrimination based on the nationality, the place of residence or the place of establishment of their customers when dealing with cross border e-commerce transactions.

The scope of the geoblocking regulations

The new Regulation will only apply to online sales between businesses and end-user consumers or businesses.

The new Regulation will apply to websites operated within the European Union or to websites operated outside the European Union but proposing goods or services to customers established throughout in the European Union.

What are the new rules of management of an e-commerce website?

„As regards the access to the website

Under the Regulation, a business may neither block nor restrict, through the use of technological measures, access to their online interfaces for reasons related to nationality, place of residence or place of establishment of an internet user. However, businesses are authorized to redirect customers to a different website than the one they were trying to access provided the customer expressly agrees thereto and can still easily visit the website version they originally tried to access.

„As regards the terms and conditions of sales of the website

The Regulation forbids businesses from applying different general conditions of access to goods or services according to a customer’s nationality or place of residence or place of establishment (as identified by their IP address in particular) in the following three cases:

  • where the goods sold by the business are delivered in a different member state to which the business offers delivery (or where the goods are collected at a location jointly agreed upon by the business and the customer);
  • where the business offers electronically supplied services such as cloud, data storage, hosting services etc. (but not services offering access to copyright-protected content such as streaming or online-gaming services);
  • where the business supplies services received by the customer in a country in which the business also operates (such as car rental and hotel accommodation services or ticketing services for sporting or cultural events).

„ As regards the means of payment on the website

The Regulation forbids businesses from applying different conditions for payment transactions to accepted means of payment for reasons related to a customer’s nationality, place of residence or place of establishment, or to the location of the payment account or the place of establishment of the payment service provider (provided that authentication requirements are fulfilled and that payment transactions are made in a currency accepted by the business).

What are the impacts of this regulation on e-retailers?

Although formally excluded from the scope of the Regulation, relations between suppliers and distributors or wholesalers will still be impacted by it since provisions of agreements between businesses under which distributors undertake not to make passive sales (e.g., by blocking or restricting access to a website) for reasons related to a customer’s nationality, place of residence or place of establishment “shall be automatically void”.

The geoblocking regulation therefore impacts distributors twofold: first, directly in their relations with customers (end-user consumers or user-businesses), and second, indirectly in regard to their obligations under the exclusive distribution agreement.

The geoblocking regulation shall have to be coordinated with the existing competition law framework, especially the guidelines on vertical restraints which set up specific rules applying to on-line sales. On-line sales are likened to passive sales. The guidelines mention four examples of practices aiming to indirectly guarantee territorial protection which are prohibited when supplier and exclusive distributor agree:

  • that the exclusive distributor shall prevent customers in another territory from visiting their website or shall automatically refer them to the supplier’s or other distributors’ websites,
  • that the exclusive distributor shall terminate an online sale if the purchaser’s credit card data show that the purchaser is not from the exclusive distributor’s exclusive territory,
  • to limit the share of sales made by the exclusive distributor through the internet (but the contract may provide for minimum offline targets in absolute terms and for online sales to remain coherent compared to offline sales).
  • that the exclusive distributor shall pay a higher price for goods intended for sale on the internet than for goods intended for sale offline.

Manufacturers will have to decide whether they adopt a unique European gateway website or multiple local commercial offers, it being known that price differentiation is still possible per category of clients.

Indeed, the new Regulation does not oblige the e-retailers to harmonize their price policies, they must only allow EU consumers to access freely and easily to any version of their website. Likewise, this Regulation does not oblige e-retailers to ship products all over Europe, but just allow EU consumers to purchase goods from whichever website they want and to arrange the shipment themselves, if need be.

Finally on a more contractual level, it is not very clear yet how the new geoblocking rules could impact directly or indirectly the conflict of law rules applicable to consumer contracts, as per the Rome I regulation especially when the consumer will be allowed to handover the product purchased on a foreign website in the country of this website (which imply no specific delivery in the country where the consumer is established).

Therefore B2C general terms and conditions of websites would need to be reviewed and adapted on both marketing and legal sides.

I produttori di marca e i concessionari di licenze sul marchio (detti anche “licenziatari”) hanno spesso un interesse a proibire l’uso del loro marchio da parte di rivenditori non autorizzati, cioè operanti sul mercato “grigio”. Recentemente un tribunale tedesco ha autorizzato un concessionario di un marchio a proibire a un rivenditore non autorizzato la distribuzione di tali beni sul mercato grigio sia online che offline. Ciò in quanto tale distribuzione minaccia di danneggiare la reputazione del marchio registrato.

Produttore di beni di lusso vieta la rivendita online e offline da parte di un rivenditore non autorizzato

Oggetto della questione è se il licenziatario del marchio, sulla base dei propri diritti sul marchio, possa proibire la vendita di prodotti di lusso da parte di rivenditori non autorizzati. Nel caso di specie, il licenziatario è l’affiliato tedesco di un produttore giapponese di prodotti cosmetici di lusso. Esso distribuisce i prodotti, di alta qualità e dal valore molto alto, tramite un sistema di distribuzione selettiva. Il rivenditore non autorizzato è un rivenditore che agisce al di fuori del sistema di distribuzione selettiva. Esso vende prodotti alimentari, beni per la casa, apparecchi elettronici, tessuti, scarpe e, oltre a ciò, anche prodotti cosmetici nella propria piattaforma online e nei propri negozi fisici. Il licenziatario del marchio chiede che al rivenditore non autorizzato sia proibito di distribuire, sia online che offline, prodotti cosmetici i quali rechino il marchio stesso.

Condizioni e motivi per la proibizione del mercato “grigio” delle vendite

La Corte d’Appello di Düsseldorf ha confermato l’ingiunzione originariamente concessa dal Tribunale, sostenendo che una pretesa a un rimedio monitorio sussiste ai sensi del Regolamento sul marchio dell’Unione europea 2017/1001 (Art. 9 co. 2 lett. a). Il rivenditore non autorizzato non potrebbe invocare il principio di esaurimento (art. 15 del Regolamento sul marchio dell’Unione europea), anche qualora il prodotto sia stato posto sul mercato in presenza di / con il consenso del licenziatario (decisione del 6 marzo 2018, caso n. I-20 U 113/17).

Invece, sussisteva una ragione legittima per una pretesa alla proibizione sulla base del Regolamento sul marchio dell’Unione europea (art. 15 co. 2) – con la conseguenza che i diritti sul marchio del licenziatario non erano esauriti. Tale diritto alla proibizione sussiste aldilà degli esempi legislativi della “modificazione” o dell’ “alterazione” dei beni, se l’uso del marchio rischia di danneggiare la reputazione che tali beni godono (cfr. Corte di Giustizia UE, caso C-337/95, “Dior/Evora”). In particolare, i rivenditori non dovrebbero danneggiare l’immagine di lusso di marchi aventi carattere lussuoso e di prestigio tramite i loro messaggi pubblicitari. Comunque, il proprietario del marchio potrebbe proibire l’uso del marchio soltanto se tale uso da parte del rivenditore “danneggia in modo sostanziale” la reputazione del marchio o, come la Corte d’Appello sembra altresì considerare, se “vi è il rischio di un danno alla reputazione” (punto 29 e ss.). Tale danno alla reputazione potrebbe essere causato, per esempio, dall’uso di un canale di distribuzione non conforme al sistema di distribuzione. Ciò sarebbe confermato altresì dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE sulla distribuzione e antitrust nei casi L’Oréal (caso C-31/80), Copad/Dior (caso C-59/08), Pierre Fabre (caso C-439/09) e – più recentemente – Coty Germany (caso C-230/16; vedi qui l’articolo precedente sulle restrizioni alle vendite online): in base a tali decisioni, i produttori di lusso possono proibire ai loro distributori la vendita su piattaforme di terze parti ai fine di mantenere l’immagine di lusso dei beni in questione. Il criterio del “danno all’immagine di lusso” dovrebbe, secondo la Corte d’Appello, essere interpretato in modo uniforme nel diritto dei marchi e nel diritto antitrust sulla distribuzione.

Nel presente caso di distribuzione di prodotti cosmetici di lusso, la Corte ha visto un rischio di danno all’immagine di lusso del prodotto nel caso sia di vendita su piattaforma online (punto 32 e ss.), che attraverso negozio al dettaglio (punto 38 e ss.): in essi la presentazione del prodotto finirebbe per declassare i marchi di lusso a marchi normali – perciò differendo fortemente dai criteri di vendita restrittivi imposti ai rivenditori autorizzati – in quanto il rivenditore non autorizzato offre anche e soprattutto beni per l’uso quotidiano, includenti articoli a basso prezzo, presentanti in modo semplice, in stile “offerta speciale”, senza particolari esaltazioni, in modo indiscriminato e senza offrire alcun servizio di consulenza.

Consigli pratici

  1. I produttori di beni di lusso possono proibire a rivenditori non autorizzati di vendere i loro prodotti di marca attraverso canali di distribuzione contrari al sistema di distribuzione, solo se vi è il rischio di un danno alla loro reputazione. Al fine di affermare l’esistenza di un tale rischio è d’aiuto avere – o stabilire – chiare ed elaborate linee guida sulla vendita e sui criteri di distribuzione nei confronti dei distributori autorizzati, le quali sottolineino chiaramente l’immagine di lusso dei marchi e dei beni nonché il loro carattere di prestigio.
  2. Resta da vedere se la decisione darà luogo a una prassi decisoria più ampia e uniforme all’interno dell’UE (la libera circolazione di beni dev’essere tenuta in conto, vedi Corte Federale Tedesca nel caso “Klacid Pro”, punto 24). In ogni caso, la decisione è in linea con la prassi decisoria sugli accordi di distribuzione selettiva e auspica comprensibilmente una interpretazione uniforme del diritto dei marchi e del diritto antitrust sulla distribuzione – come già fatto dall’Avvocato Generale nel caso Coty riguardante divieti di usare piattaforme di terze parti (punto 71 e ss. delle sue Conclusioni).
  3. Resta inoltre da vedere se a produttori di marca anche al di fuori del segmento del lusso verrà concesso un rimedio monitorio contro rivenditori non autorizzati. Per quanto riguarda i rivenditori autorizzati, si può sostenere che non solo produttori di lusso, ma anche produttori di marca in generale possono proibire la vendita tramite piattaforme di terze parti (vedi il precedente articolo sulle restrizioni alle vendite online). In ogni caso, la prassi decisoria sulle vendite online sta divenendo sempre più chiara, vedi, per esempio, il precedente articolo sui motori di ricerca sui prezzi, qui.
  4. Protezione del marchio all’interno dell’Europa: quando vendono i prodotti all’interno dello Spazio Economico Europeo (= UE più Liechtenstein, Islanda e Norvegia), i produttori di marca e i licenziatari di marchi registrati possono proteggere i loro marchi registrati tramite un doppio sistema: (i) un unico marchio protetto lungo tutto lo Spazio economico europeo e (ii) singoli marchi registrati in ogni paese, in modo da coprire tutti gli stati membri UE. Registrare un marchio UE conferisce al proprietario i diritti esclusivi sullo stesso, e lo autorizza in particolare di proibire:
  • l’apposizione del segno sui prodotti o sul loro imballaggio;
  • l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;
  • l’importazione o l’esportazione dei prodotti sotto la copertura del segno;
  • l’uso del segno come nome commerciale o denominazione sociale o come parte di essi;
  • l’uso del segno nella corrispondenza commerciale o nella pubblicità;
  • l’uso del segno nella pubblicità comparativa in una maniera contraria alla direttiva 2006/114/CE (art. 9 co. 3 del Regolamento sul marchio dell’Unione europea).

Tali diritti, tuttavia sono esauriti (non possono più essere esercitati) con riguardo a beni recanti il marchio registrato che siano stati immessi nello Spazio economico europeo con il senso del proprietario (cosiddetto principio di esaurimento). Eccezione: un proprietario potrebbe ancora proibire l’ulteriore commercializzazione dei beni in presenza di ragioni legittime. Tali ragioni sussistono, in particolare, laddove lo stato dei beni sia mutato o manomesso dopo che gli stessi sono stati immessi sul mercato, o laddove la vendita di beni recanti il marchio registrato rischi di danneggiare la reputazione, come nel presente caso tedesco.

Once convinced of the utility of mediation as a method of resolving conflicts between franchisor and franchisee and taken the decision to include a clause in the contracts that provides for it, the last step would be what elements should be taken into account when drafting it.

  1. The previous negotiation. It seems advisable that both parties grant themselves the possibility of trying to solve the problem with a previous formal negotiation. Mediation does not exclude the previous attempt made by the interested parties or their lawyers; however, it seems advisable to contractually provide a suitable end according to the circumstances. Experience shows that lengthening this phase too long may result in the conflict becoming more complicated and even more difficult to approach mediation.
  2. The clause may also provide for the place where the mediation will take place. Again at this point the parties are free. It is convenient that this is accurate indicating the concrete city.
  3. The language in which the mediation will be developed is the a faculty of the parties. There will be no difficulty in mediations in which both parties use the same language, but it is very convenient in contracts with parties that have different languages, or that belong to regions or countries with different co-official languages. The drafting or signing of the contract in a specific language does not presuppose that this must be the language of the mediation. It is an element to be taken into account also when requesting a mediator who can use that language in the chosen mediation institution.
  4. The procedure can also be decided by the parties. In particular, the number of sessions, the maximum expected duration, the participation of advisors, etc. Keep in mind that the greater or lesser regulation will allow to avoid future conflicts in this respect, although it will also imply a greater limit to the freedom of the parties that, nevertheless, will remain free to modify the agreement by mutual consent.
  5. The term of the mediation can also be contemplated. This would allow, for example, to prevent mediation from being extended only for purely procedural strategic purposes or to gather information from the other party before starting a procedure, etc. The professional mediators, however, are able to identify these manoeuvres, also having the power to put an end to mediation in those cases.
  6. Choosing the mediator or the mediation institution is an important choice. The parties can agree on who will be their mediator, indicate in the contract the elements to choose it, or submit directly to a Mediation Institution so that it is the one who designates it according to its own rules. These decisions can be alternatives (that is, that the parties agree on the mediator and, in case of lack of agreement, submit to an institution that names it), or they can be unique. The designation of an Institution requires that it has a sufficient guarantee of stability (avoid designating short-term institutions or without much future guarantee), with a sufficient panel of mediators depending on the characteristics of the mediation (language, competence, experience) and that allows the necessary flexibility for its operation.
  7. Finally, it is convenient that the clause includes an alternative way in case the mediation does not succeed either because the parties do not reach an agreement, or because they withdraw from the mediation. It is important to recall that mediation does not close the doors to the conflict be resolved by recourse to ordinary jurisdiction or arbitration. And in terms of specialized arbitration in distribution contracts, the IDArb (https://www.idiproject.com/content/idarb-idi-arbitration-project) is an excellent option.

On the topic of the importance of Mediation in Distribution Agreements, you can check out the recording our webinar “Mediation in International Conflicts”

Rimowa comunica disdetta a tutti i rivenditori in Europa“ – così titolava l’Handelsblatt il 19 marzo 2018. Il motivo? Rimowa, famoso produttore di costose valigie di marca, ristruttura nuovamente nel 2018 – dopo la precedente ristrutturazione del 2011 – la propria catena distributiva. Progetta, in particolare, di introdurre criteri qualitativi ancor più stringenti e distanti dalla concezione di vecchio negozio, al fine di giungere a una sorta di “esperienza dell’acquisto” (cfr. a tal proposito la Süddeutsche Zeitung del 21.03.2018, pag. 16).

È bene premettere che, in via generale, i produttori possono strutturare il loro sistema di distribuzione in modo libero e svilupparlo in base alla loro strategia di mercato. Essi sono inoltre sostanzialmente liberi di scegliere tra differenti intermediari distributivi (rivenditore, franchisee, agente ecc.) e di passare eventualmente anche a sistemi di distribuzione selettiva, al fine di indirizzare la distribuzione secondo determinati criteri (in particolare qualitativi) e di possibilmente ridurre, in tal modo, anche il numero dei rivenditori. Tuttavia, in via eccezionale gli stessi rivenditori possono costringere il produttore a essere riforniti: quando, cioè, si sia in presenza di produttore con un grande potere di mercato. In tal caso, un c.d. obbligo a contrarre, risultando in un obbligo di fornitura, può discendere dal divieto di discriminazione, di cui ai §§ 19 co. 1, 2 n. 1, 20 GWB.

Tale questione assume importanza pratica soprattutto quando, come nel caso di Rimowa, il produttore ristrutturi il proprio sistema di distribuzione. Rimowa l’aveva già fatto nel 2011/2012, quando era passata a una distribuzione selettiva (vedi sulla distribuzione selettiva e le eventuali restrizioni già l’articolo di Legalmondo qui). A tal fine Rimowa ha disdetto i precedenti contratti di concessione di vendita e ha richiesto la sottoscrizione di nuovi contratti, i quali, tra le altre cose, obbligano il rivenditore a presentare le merci in una determinata maniera e ad acquistare e introdurre lo Shop-in-Shop del produttore. Secondo Rimowa, un precedente distributore non corrispondeva più alla nuova concezione del business e alla nuova strategia di marketing. I due, però, non si accordavano per la stipula di un nuovo contratto di concessione di vendita. Così, il rivenditore agiva in giudizio al fine di ottenere la stipula del contratto e con esso anche le forniture per i suoi negozi.

Il Tribunale di Monaco di Baviera rigettava la domanda (sentenza del 09.09.2014, fasc. n. 1 HKO 7249/13), mentre la Corte d’Appello di Monaco di Baviera, viceversa, l’accoglieva (sentenza del 17.09.2015, fasc. n. U 3886/14 Kart): il produttore avrebbe vantato una posizione di vertice “nel rilevante mercato delle valigie costose e di alto valore”, mentre il rivenditore, viceversa, sarebbe stato in una posizione di dipendenza, in quanto le valigie del primo non avrebbero potuto essere sostituite da altre di pari valore. Ciò sarebbe dimostrato da un’alta quota distributiva presso altri rivenditori (il produttore, cioè, sarebbe il fornitore di un alto numero di rivenditori) e dal design unico, con il connesso alto fattore di riconoscimento. Ora la Corte Federale di Revisione (il BGH) ha annullato la sentenza e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello per ulteriore trattazione (sentenza del 12.12.2017, fasc. n. KZR 50/15), con la motivazione che la c.d. dipendenza del rivenditore dalla posizione di vertice del produttore (“Spitzenstellungsabhängigkeit”) non sarebbe stata adeguatamente accertata: se, nella normalità dei casi, la quota distributiva è determinante, in presenza di sistemi di distribuzione selettiva questa sarebbe meno indicativa. Per il caso di ristrutturazione del sistema di distribuzione vale quanto segue:

Qualora un fornitore decida, a un certo punto, di passare a un sistema di distribuzione selettiva, si è solitamente in presenza di una dipendenza da posizione di vertice, qualora con riferimento al periodo antecedente si accerti un’alta quota distributiva.” (punto 19)

Il produttore può opporre eccezione contro la supposta dipendenza da posizione di vertice, indicando quanti rivenditori egli abbia rifornito con prodotti propri (e non solo: anche quanti rivenditori abbiano offerto i prodotti, indipendentemente da quale ne fosse la fonte). Una cosa, questa, che impegnerà ulteriormente i tribunali. Inoltre, la quota distributiva si determina sulla base di quei rivenditori che siano paragonabili a un rivenditore il quale richiede accesso al sistema di distribuzione e alla fornitura (punto 27), come il BGH ha già accertato in precedenza con riferimento a designer di mobili imbottiti (sentenza del 09.05.2000, fasc. n. KZR 28/98, pag. 12 e ss.).

Conclusioni pratiche

  1. Valutare attentamente, in fase di ristrutturazione del sistema di distribuzione, se prevedere o meno delle disposizioni transitorie. Una buona ragione per evitarle potrebbe essere il voler rendere più facile l’esclusione di distributori indesiderati. Pertanto, nel caso Rimowa, la Corte d’Appello di Monaco di Baviera ha respinto l’obiezione del produttore secondo cui il modello commerciale del distributore “mirava ai cacciatori di occasioni“, sostenendo che il produttore avrebbe concesso agli altri distributori un termine di “12 mesi dopo la conclusione dell’accordo” per soddisfare i nuovi criteri qualitativi.
  2. Sui criteri qualitativi nelle vendite via Internet, si rimanda agli altri articoli già pubblicati su Legalmondo, in particolare sui divieti di rivendita via piattaforme internet e sul divieto di strumenti di comparazione dei prezzi.

Il contratto di distribuzione e la distribuzione selettiva

L’ordinamento italiano non prevede una disciplina specifica del contratto di distribuzione. Pertanto, esso risulta regolato, per analogia, dalle norme dettate per il contratto di compravendita, da quelle generali previste in materia di obbligazioni contrattuali, nonché dai principi fissati dalla giurisprudenza in materia. Il contratto di distribuzione non richiede la necessaria forma scritta (che è comunque sempre consigliata).

In questo contesto, il sistema di distribuzione selettiva viene adottato, principalmente, nel settore dei beni di elevato livello tecnologico per i quali l’acquirente necessiti di specifica assistenza o dei beni di lusso, per tutelare gli investimenti effettuati dal titolare in termini di prestigio del marchio. Il produttore o il distributore esclusivo selezionano, sulla base di criteri qualitativi e/o quantitativi (numero e dislocazione geografica), i rivenditori che rispondono a determinati standard di competenza professionale, di qualità del servizio e/o di prestigio del punto vendita, stabiliti dallo stesso produttore.

La distribuzione selettiva è definita dal Regolamento UE 330/2010 del 20.04.2010 (relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea a categorie di accordi verticali e pratiche concordate) come segue:

un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema” (art. 1, comma 1, lett. e), Reg. citato).

Trattandosi di una forma di restrizione verticale della concorrenza, essa gode tuttavia dell’esenzione dal divieto di cui all’art. 101 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), e di quello previsto dall’Art. 2 della Legge n. 287 del 10.10.1990 (Intese restrittive della libertà di concorrenza), ricorrendone i presupposti di cui allo stesso Regolamento 330/2010.

Il rifiuto di fornire i prodotti

In questo quadro, a fronte del rifiuto da parte del produttore/titolare della rete di distribuzione selettiva, un rivenditore che assumesse di avere tutte le qualità richieste, avrebbe il diritto di pretendere di essere inserito nella rete distributiva e, quindi, di essere rifornito dei prodotti oggetto di tale distribuzione commerciale?

Per rispondere a tale domanda occorre innanzitutto rilevare che è un principio generale, secondo l’ordinamento italiano (ma è condiviso da molti altri sistemi giuridici), la c.d. “autonomia contrattuale” che si traduce anche nella libertà di contrarre o meno facente capo ad ogni soggetto. Ne deriva che, di regola, ognuno è libero di rifiutarsi di concludere un contratto e, nel caso di specie, di fornire i propri prodotti ad un rivenditore terzo che ne faccia richiesta.

Le eccezioni a questa regola sono rigidamente stabilite dalla legge, come ad esempio il caso del monopolista legale. Ma si tratta di una fattispecie che non ricorre – com’é evidente – nel caso di un sistema di distribuzione selettiva tra privati.

Le norme antitrust europee e italiane

Prendendo in considerazione le norme antitrust che disciplinano la distribuzione selettiva e la sua esenzione dal divieto di porre in essere intese restrittive della concorrenza, ossia, rispettivamente, l’art. 101, comma 3, TFUE, ed il Regolamento UE 330/2010, a mente dei quali va interpretato l’articolo 2 della L. 287/1990, non vi è modo di ricavare un obbligo a contrarre, per di più, suscettibile di tutela costitutiva in forza dell’art. 2908 Cod. civ. (ossia attraverso una sentenza del giudice che sostituisca il contratto non stipulato), in capo ad un soggetto privato (quindi non un ente pubblico) che non si trovi in posizione di monopolio, nei confronti di un altro soggetto.

Analogamente, anche nel caso in cui l’impresa terza rispondesse ai criteri utilizzati per selezionare i rivenditori della rete distributiva, nessuna norma (tanto meno il Regolamento UE 330/2010) impone all’impresa fornitrice di contrarre con l’impresa terza e, quindi, di farla accedere alla rete distributiva. In tal senso si è recentemente espressa la giurisprudenza in un caso di restrizione verticale negli accordi per la vendita di autoveicoli.

Per cui, anche sotto quest’aspetto, il rifiuto di fornire il rivenditore terzo appare assolutamente legittimo, senza che risulti neppure necessario accertare le caratteristiche del sistema distributivo utilizzato dal produttore/distributore o la compatibilità del medesimo con l’art. 2, L. 287/90.

Ad ogni buon conto, i punti 175 e 176 della Comunicazione della Commissione 19 maggio 2010, 2010/C 130/1, recante Orientamenti sulle restrizioni verticali (indispensabile complemento del Regolamento di esenzione per categoria), chiariscono che:

(i) mentre un sistema puramente qualitativo, di norma, non rientra nell’ambito di applicazione del divieto di intese restrittive della concorrenza, e quindi è lecito a prescindere da qualsiasi esenzione,

(ii) la distribuzione selettiva qualitativa e quantitativa beneficia dell’esenzione per categoria fintantoché la quota di mercato sia del fornitore che dell’acquirente non supera il 30%, anche se ad essa sono combinate altre restrizioni verticali non fondamentali come il divieto di concorrenza e la distribuzione esclusiva, purché i distributori autorizzati non siano soggetti a restrizioni nella vendita attiva tra loro e agli utilizzatori finali. Il regolamento di esenzione per categoria esenta gli accordi di distribuzione selettiva a prescindere dalla natura del prodotto in questione e del criterio di selezione. Tuttavia, se le caratteristiche del prodotto non richiedono una distribuzione selettiva o non richiedono i criteri applicati, come ad esempio la condizione per i distributori di avere uno o più punti vendita «non virtuali» o di fornire specifici servizi, tale sistema di distribuzione non comporta generalmente vantaggi in termini di efficienza tali da compensare una notevole riduzione della concorrenza all’interno del marchio” (n. 176 cit.).

Oltretutto, la regola c.d. “de minimis” (Comunicazione della Commissione Europea relativa agli accordi di importanza minore che non determinano restrizioni sensibili della concorrenza ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (comunicazione «de minimis») 2014/С 291/01 [Gazzetta ufficiale C 368 del 22.12.2001]) prevede che siano esclusi dall’applicazione dell’art. 101 TFUE gli accordi stipulati tra imprese concorrenti la cui quota di mercato complessiva sia inferiore al 10%, ed al 15%, nel caso di accordi tra imprese non concorrenti (ovvero operanti a livelli diversi della catena distributiva, come nel caso della distribuzione selettiva).

In ogni caso, indipendentemente dalla presenza o meno delle condizioni per l’esenzione dal divieto di cui all’art. 101 TFUE, non sussiste alcun obbligo per il produttore/distributore di far accedere alla rete di distribuzione selettiva il rivenditore terzo che ne facesse richiesta, anche avendone, in ipotesi, i requisiti.

Analogamente, dal citato Regolamento UE 330/2010, o altrove, non è ricavabile un obbligo che imponga all’impresa che ha posto in essere un sistema di distribuzione selettivo di rendere noti i criteri di selezione utilizzati ai terzi che ne facciano richiesta, anche considerando che tali criteri hanno un evidente carattere di riservatezza commerciale, riguardando aspetti determinanti delle strategie competitive del produttore/distributore, la cui conoscenza rappresenterebbe un indebito vantaggio per il terzo, che opera, evidentemente, nel medesimo settore di mercato.

Le norme sulla concorrenza sleale

Per completezza, occorre osservare che il rifiuto di fornire il rivenditore terzo potrebbe configurare un atto di concorrenza sleale, vietato ai sensi dell’art. 2598 Cod. civ., potendo rappresentare un caso di “boicottaggio economico primario” consistente nel rifiuto ingiustificato di contrarre da parte di un’impresa. Occorre però tenere presente che, affinché si possa ritenere illecito tale comportamento, si deve verificare la compresenza di due elementi:

1) oggettivo. È, infatti, ritenuto generalmente lecito il boicottaggio individuale diretto, perché manifestazione della libertà dell’imprenditore di scegliere la propria controparte (autonomia contrattuale), salvo il caso in cui questo sia posto in essere da una impresa in posizione dominante (posizione di mercato che consente ad un’impresa di assumere un comportamento significativamente indipendente nei confronti delle imprese concorrenti e dei consumatori, a causa di una considerevole restrizione della concorrenza all’interno del mercato in cui la stessa impresa opera);

2) soggettivo. Occorre che il comportamento commerciale consistente nel boicottaggio sia dolosamente diretto all’esclusione dal mercato del concorrente, e non abbia altra giustificazione, non rientrando nelle abituali strategie di mercato del soggetto che lo pone in essere.

Ma anche nell’ipotesi sopra descritta, il rifiuto (ingiustificato e deliberato) di concludere il contratto non comporterebbe per il produttore/distributore l’obbligo di far accedere il terzo nella rete di distribuzione selettiva, ma solo quello di risarcire il relativo danno.

L’esecuzione in forma specifica

In ogni caso, un Giudice non potrebbe mai condannare il titolare della rete di distribuzione selettiva a fornire il terzo per il semplice motivo che i casi in cui è prevista, dall’ordinamento italiano, l’esecuzione in forma specifica di un obbligo a contrarre richiedono sempre necessariamente o che il contenuto del contratto definitivo sia stato predeterminato dalle parti medesime attraverso un precedente contratto, come nel caso dell’esecuzione del contratto preliminare, prevista dall’art. 2932 cod. civ., oppure che il contratto definitivo sia predeterminato in maniera rigorosa dal mercato, in quanto, trattandosi di monopolista legale, come è appunto il caso dell’art. 2597 cod. civ., si tratta soltanto di applicare le condizioni contrattuali che lo stesso pratica nel mercato al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i contraenti.

In un’ipotesi come quella in esame, al contrario, l’oggetto del contratto sarebbe assolutamente indeterminato ed indeterminabile ed, in assenza di qualsiasi parametro, il giudice non potrebbe stabilirne autonomamente il contenuto.

L’autore di questo articolo  è Davide Grill.

It is not only since the days of the Internet that brand manufacturers have had to contend with the fact that original products are offered outside of their authorized sales channels. The problem has since been significantly exacerbated, however. The relevant products are also referred to as gray market products.

The internal market of the European Economic Area makes it possible to exploit certain price advantages – that is, purchasing in one Member State at a price that is lower than in other Member States and selling to the end customer while passing on (or not passing on) the purchasing advantage. This is made possible by the “exhaustion regime”, according to which the sale of products, which at one time were made available in the European Economic Area with the copyright holder’s consent, cannot be prohibited.

Brand manufacturers’ attempts to counter this issue by means of distribution systems may be an effective instrument, but only if all distribution partners adhere to it. If a distribution partner pulls out, trademark owners (at least in Germany) are initially required to contact their distribution partner who is acting contrary to the contract. That is difficult when the distribution channel of the products in question cannot be traced by security systems (such as SKU numbers) beyond any doubt. A right to information against a third party generally does not exist. Thus, neither the distribution system itself nor the suspicion that the products are not of EU origin may be used easily to justify a right to information in selective or exclusive distribution. The Federal Court of Justice, for example, sees no reason to deviate from the exhaustion doctrine when implementing a selective distribution system (Federal Court of Justice, 1 ZR 63/04). In the case of a selective or exclusive distribution system (Federal Court of Justice, I AR 52/10), the burden of proof is reversed. Accordingly, it is initially the brand manufacturer itself that is responsible for providing evidence for its allegation of a non-EU product.

Exceptions are only made where, for example, the SKU numbers were modified, since this makes clarification difficult. In such cases, trademark infringement and at the same time breach of competition law are given by way of exception and it is not possible for the dealer to invoke exhaustion (Federal Court of Justice I ZR 1/98). The deliberate misleading of the authorized dealer by a third party to breach the contract is also recognized as an exception (Federal Court of Justice I ZR 96/04), which regularly is not verifiable, however.

By the way, the sensational December 2017 Coty decision of the Court of Justice of the European Union (CJEU C-230/16) (here you can find more: https://www.legalmondo.com/2017/12/eu-court-justice-allows-online-sales-restrictions-coty-case/) has not changed this basic presumption, either. In its Coty decision, the CJEU in the end confirms the exhaustion priority also and particularly for luxury products by referring to existing case law (specifically ECJ C-59/08).

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There are, however, more options available. As confirmed by the ECJ (ECJ, C-337/95), an exemption from the exhaustion principle already applies when the type of sale may be designed to damage the reputation of the trademark. In the Court’s opinion, this applies to the sale of products at discounters, if such a sale damages the reputation of the products to an extent that their luxurious image and quality is called into question (ECJ, C-59/08). This applies, on the one hand, if other products are sold in the immediate “neighborhood” to the branded product, without meeting the same quality requirements (ECJ, C-337/95) or if the advertising methods are unsuitable (ECJ, C-63/97). Hamburg Regional Court, for example, found that the use of photographs that are unsuitable and detrimental to the luxury image of a brand justifies a prohibition claim (at least with respect to use of the photos) (Hamburg Regional Court, 315 O 339/13). The Federal Court of Justice saw improper handling of the brand in an erroneous and negligent labeling of products (Federal Court of Justice, I ZR 72/11).

Düsseldorf Higher Regional Court has now also followed these CJEU guidelines by prohibiting the sale of high-priced cosmetic products, which are distributed in the framework of a strictly regulated selective distribution system, at a discounter (Düsseldorf Higher Regional Court, I-20 U 113/17). The Court explicitly referenced the CJEU, by repeating its principles and then applying them in the case of the discounter:

The permanent and extensive sale of the cosmetic products at issue on the online platform www…de is suitable to significantly impair the image of the application brands. The way in which the products are presented there draws the application brands into the mundane and ordinary. As the relevant public is used to from the multitude of Respondent’s conventional self-service department stores, the offering on www…de of everyday products is frequently dominated in the form of particularly low priced own labels, such as Z.’s own label O. Respondent’s motto applies here as well. The assortment ranges from food to electronics, household goods, clothing to cosmetics. Since Respondent’s online presence was merged with that of the company B that it had acquired, it is moreover not only Respondent that offers its goods for sale on the platform, but also third parties may market goods via the online platform. The portal is designed to be functional and oriented toward products that are on sale. Customers are able to collect PAYBACK points with each purchase and may make use of financing. In some cases, goods are advertised at “instead of prices and red letters indicate in attention-getting manner what percentage customers will save compared to the original prices. Product consultation does not take place.

By offering luxury products at random alongside every-day and mass products without any kind of prominent presentation and becoming affordable through financing options, the products would be placed on a level with the other items offered, thereby significantly affecting the prestige value of the products. For this reason, Düsseldorf Higher Regional Court pronounced a complete ban on distribution for the online platform and the department stores.

Conclusion:

Even if the Düsseldorf Higher Regional Court’s decision is not to be considered revolutionary in light of existing CJEU case law, it certainly ensures some impetus in proceeding against gray market dealers, since national courts are now no longer facing the “uncomfortable” hurdle of applying CJEU case law, but rather in the customary fairway of national case law. In principle, Düsseldorf Higher Regional Court case law may not be understood as a blank check, however. Even Düsseldorf Higher Regional Court did not allow a general ban, but rather weighed individually whether the distribution in its concrete form could be prohibited. In the future, it will also be important to work out what in particular will determine the extent of the ban.

The author of this post is Ilja Czernik.

We have seen in a previous post the advantages of mediation as an alternative dispute resolution method in franchise agreements. From there, what recommendations could we give to make better use of mediation? Although we will have to adapt them to each specific case, the following points could be very useful:

  1. Specifically foresee in the contract a mediation clause as an alternative dispute resolution method. Although the franchisee and franchisor can agree to mediate once the conflict arises without having reflected it in the contract, it will surely be more complicated to do so when both have already initiated the discrepancies. It is preferable, therefore, to do it before: it places the parties in a better predisposition, they will be able to choose the procedure in a better way, as well as the institution, the mediator, the formalities, etc.
  2. If the parties have agreed on a mediation agreement, this may be initiated at the request of only one of them, without having to re-reach an agreement.
  3. The mediation clause is also recommended, because once an application for the initiation of mediation has been agreed upon, the limitations period of the legal actions will be suspended until the termination of the mediation.
  4. By virtue of this agreement and having initiated the mediation, the courts will not be able to hear such controversies during the time in which the mediation takes place, provided that the interested party invokes it.
  5. In the clause, it is convenient to foresee some elements, such as what issues may be the subject of mediation (all or only some of them), the need or not of a previous negotiation, adequate deadlines to avoid that this procedure can be used to delay other ways, the applicable law to mediation and to the agreement reached with it, the competent jurisdiction for the adoption of precautionary measures, where appropriate, or the jurisdiction or arbitration to settle the dispute in case of failure of mediation.
  6. It is true that one of the principles of mediation is its voluntary nature. However, the existence of the clause and being obliged to attend at least one informative session before initiating any judicial procedure can convince of its advantages even the most reticent party.
  7. Include the mediation as an alternative dispute resolution method within the pre-contractual information that the franchisor must deliver to potential franchisees. Although the Spanish norm does not seem to expressly demand that reference be made, this seems an optimal moment to show transparency and the will to solve possible problems in an agile manner. It also predisposes the good understanding, cooperation and good faith of the franchised brand before the beginning of relations.
  8. Appropriately select the mediation institution to which to refer in case of conflict or foreseeing the best way to choose the most appropriate mediator. Currently there are many institutions or professionals that offer guarantees of impartiality. It may be relevant that it is a mediator with specific training, who facilitates the communication and confidence of the parties and, insofar as possible, who can fully understand the nature of the franchise. There are institutions in Spain such as the Signum Foundation (http://fundacionsignum.org/) or MediaICAM of the Madrid Bar Association (https://mediacion.icam.es) that can be good choices.

On the topic of the importance of Mediation in Distribution Agreements, you can check out the recording our webinar “Mediation in International Conflicts”

Mediation and franchise agreements – best practices

3 Maggio 2018

  • Spagna
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Quali sono le eccezioni al divieto di fissazione del prezzo di rivendita in un contratto di distribuzione?

Come note, le intese limitative della concorrenza sono vietate ai sensi dell’art. 101 TFUE, qualora pregiudichino in modo tangibile la concorrenza, a meno che l’incidenza dell’intesa sul commercio o sulla concorrenza sia trascurabile (cfr. Corte di Giustizia UE nel caso Expedia, C-226/11, sentenza del 13 dicembre 2012). Con riguardo alla domanda se sussista una non trascurabile limitazione della concorrenza, oppure se ci si trovi piuttosto in un “porto sicuro” (safe harbour) si può prendere come punto di riferimento la Comunicazione sui De-minimis della Commissione Europea. Sulla base di tale atto, un accordo si configura, in particolare, come non “trascurabile”, qualora attraverso lo stesso si persegua una limitazione della concorrenza. Ciò vale in particolare per le limitazioni fondamentali, come l’imposizione verticale di prezzi (o dei prezzi di rivendita).

Con riguardo a una campagna speciale di prodotti per la linea, la Corte d’Appello di Celle aveva visto e deciso la questione in modo sorprendentemente diverso, sostenendo che un vincolo verticale sul prezzo non costituisse una restrizione sensibile e che, pertanto, ricadrebbe al di fuori del divieto di pratiche commerciali anticoncorrenziali di cui all’art. 101 TFUE (sentenza del 07.04.2016, n. fasc. 13 U 124/15 [Kart]). Nel caso di specie, il produttore aveva sottoposto, a un gruppo di rivenditori (farmacie), una campagna speciale con uno sconto particolare: di una volta sola, limitata nel tempo e con un limite quantitativo massimo. A tal fine, i rivenditori avrebbero dovuto obbligarsi a mettere in mostra “il prodotto … in modo ben visibile, e a non scendere al di sotto del prezzo di 15,95 Euro”.

Il Tribunale di Hannover aveva invece visto nell’accordo un’inammissibile imposizione del prezzo (sentenza del 25.8.2015, n. fasc. 18 O 91/15). La Corte Federale tedesca ha ora confermato questa linea: i prezzi minimi stabiliti nell’ambito dell’offerta speciale, limitano la concorrenza nel suo complesso (cfr. punto 26) e rientrano perciò nel divieto previsto dall’art. 101 TFUE (sentenza del 17.10.2017, n. fasc. KZR 59/16). Tale decisione è conforme alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, caso Expedia (vedi sopra), e a quella del Corte Federale tedesca stessa riguardante la richiesta di distribuire “una barretta extra” (ossia senza maggiorazione di prezzo rispetto alla confezione normale) formulata dal produttore dolciario Ferrero (sentenza dell’08.04.2003, n. fasc. KZR 3/02), perché quest’ultima decisione riguarda formalmente “il margine di aumento del prezzo riconducibile al contenuto più ampio della confezione”; non, tuttavia, la decisione, da parte del rivenditore, di fissare il prezzo di vendita minimo.

Indicazioni pratiche:

  1. La fissazione verticale del prezzo è generalmente vietata, sebbene un prezzo di vendita consigliato dal produttore (“prezzo di rivendita consigliato”) e la fissazione di prezzi massimi di vendita siano viceversa consentiti: è questo, in sostanza, il principio base della normativa sulla concorrenza in materia distributiva tedesca ed europea, per quanto riguarda l’ambito dei prezzi. Inoltre, consigli sui prezzi e prezzi massimi di vendita sono soggetti alla condizione “che questi non equivalgano ad un prezzo fisso o ad un prezzo minimo di vendita per effetto di pressioni esercitate o incentivi offerti

da una delle parti” (art. 4 lett. a) del Regolamento di esenzione per categoria di accordi verticali). Ciò significa che:

  • il produttore o il fornitore possono fornire un’indicazione,
  • il rivenditore, tuttavia, dispone di un’ampia libertà nel fissare i propri prezzi di vendita.
  1. Eccezioni sono previste, oltre che per i vincoli verticali sui prezzi dei libri o nel caso di accordi di specializzazione – se necessario per il tramite della difesa efficiente di cui all’articolo 101 co. 3 TFUE, in casi individuali, per esempio:
  • inserimento di nuovi prodotti nel mercato, oppure
  • in caso di campagne speciali limitate nel tempo, qualora ad esse si accompagni un corrispondente vantaggio in termini di efficienza, ad esempio qualora i margini di profitto siano investiti in una migliore assistenza della clientela, la quale avvantaggi tutti i consumatori e, fissando i prezzi, eviti le forme di parassitismo da parte di quei commercianti i quali non offrono alcuna forma di assistenza (cfr. Orientamenti sulle restrizioni verticali, punto 225).

Tali offerte, tuttavia, necessitano di una preparazione molto buona, in quanto i produttori stessi possono formulare soltanto per periodi molto brevi i prezzi di rivendita e soltanto qualora gli stessi siano giustificati in modo convincente da vantaggi in termini di efficienza, come ad esempio l’impedimento di casi di parassitismo.

  1. Nel caso di imposizioni di prezzi, le autorità della concorrenza diventano presto sensibili. Per esempio, multe per imposizione verticale di prezzo sono state emesse di recente in Germania. A tal riguardo, occorre fare particolare attenzione, in modo speciale negli accordi, di distribuzione e vendita. .
  2. In modo corrispondente, i reparti vendita delle imprese dovrebbero adattare i loro metodi distributivi alla giurisprudenza finora intercorsa concernente le indicazioni sui prezzi, fissazione di prezzi massimi e offerte speciali in sconto. Indicazioni pratiche vengono inoltre fornite da

Geoblocking is a discriminatory practice preventing customers (mainly on-line customers) from accessing and/or purchasing products or services from a website located in another member State, because of the nationality of the customer or his place of residence or establishment.

The EU Regulation no. 2018/302 of 28 February 2018 on addressing unjustified geoblocking and other forms of discrimination based on customers’ nationality, place of residence or place of establishment within the internal market will enter into force on 2 December 2018.

The current situation

The EU Commission carried out a “mystery shopping” survey on over 10 000 e-commerce websites in the EU. The geoblocking figures are quite high! 63% of the websites do not let shoppers to buy from another EU country (even 86% for electric household appliances and 79% for electronics and computer hardware).

The survey shows also that 92% of on-line retailers require customers to register on their website and to provide them with e-mail address, physical address and telephone number. The registration is denied most of the time because of a foreign delivery address for 27% of the websites. Almost half of the websites give no information about the place of delivery while shopping on the website although this information on delivery restrictions has to be provided in due time during the shopping process. At the end, according to this EC survey, only 37% of the websites truly allow e-shoppers to freely buy on-line from another EU country (without restriction as regards place of establishment, place of delivery and mean of payment).

On the other side, only 50% of European customers buy products from on-line shops based in another EU member State while the value and the volume of e-commerce, globally speaking increase thoroughly year after year, but only on a domestic scope not throughout Europe.

On 23 June 2017, the European Council asked for a real implementation of the Digital Single Market strategy in all its elements including cross border partial delivery, consumer protection and prohibition of undue geoblocking.

The lack of the current legal frameworks

The service directive (n°2006/123/CE) and article 101 of the TFUE address already the discrimination practices based on nationality or place or residence or establishment.

According to article 20 (2) of the service directive, the EU member States must ensure that professionals do not treat customers differently based on their place of residence or establishment or nationality (unless objective exception). On the other side, EU competition law on vertical restraints (article 101 TFUE and the block exemption regulation and its guidelines) considers restrictions on passive sales as hard core restrictions violating EU competition rules. However, both set of rules (service directive and competition law framework) appear not to be fully effective in practice.

With this respect, the recent report of the European commission about the competition enquiry in the e-commerce sector shows, among others, that geoblocking was used at a large scale within the European e-commerce sector.

The aim of the geoblocking regulation

The goal of the geoblocking regulation is to prevent professionals from implementing direct or indirect discrimination based on the nationality, the place of residence or the place of establishment of their customers when dealing with cross border e-commerce transactions.

The scope of the geoblocking regulations

The new Regulation will only apply to online sales between businesses and end-user consumers or businesses.

The new Regulation will apply to websites operated within the European Union or to websites operated outside the European Union but proposing goods or services to customers established throughout in the European Union.

What are the new rules of management of an e-commerce website?

„As regards the access to the website

Under the Regulation, a business may neither block nor restrict, through the use of technological measures, access to their online interfaces for reasons related to nationality, place of residence or place of establishment of an internet user. However, businesses are authorized to redirect customers to a different website than the one they were trying to access provided the customer expressly agrees thereto and can still easily visit the website version they originally tried to access.

„As regards the terms and conditions of sales of the website

The Regulation forbids businesses from applying different general conditions of access to goods or services according to a customer’s nationality or place of residence or place of establishment (as identified by their IP address in particular) in the following three cases:

  • where the goods sold by the business are delivered in a different member state to which the business offers delivery (or where the goods are collected at a location jointly agreed upon by the business and the customer);
  • where the business offers electronically supplied services such as cloud, data storage, hosting services etc. (but not services offering access to copyright-protected content such as streaming or online-gaming services);
  • where the business supplies services received by the customer in a country in which the business also operates (such as car rental and hotel accommodation services or ticketing services for sporting or cultural events).

„ As regards the means of payment on the website

The Regulation forbids businesses from applying different conditions for payment transactions to accepted means of payment for reasons related to a customer’s nationality, place of residence or place of establishment, or to the location of the payment account or the place of establishment of the payment service provider (provided that authentication requirements are fulfilled and that payment transactions are made in a currency accepted by the business).

What are the impacts of this regulation on e-retailers?

Although formally excluded from the scope of the Regulation, relations between suppliers and distributors or wholesalers will still be impacted by it since provisions of agreements between businesses under which distributors undertake not to make passive sales (e.g., by blocking or restricting access to a website) for reasons related to a customer’s nationality, place of residence or place of establishment “shall be automatically void”.

The geoblocking regulation therefore impacts distributors twofold: first, directly in their relations with customers (end-user consumers or user-businesses), and second, indirectly in regard to their obligations under the exclusive distribution agreement.

The geoblocking regulation shall have to be coordinated with the existing competition law framework, especially the guidelines on vertical restraints which set up specific rules applying to on-line sales. On-line sales are likened to passive sales. The guidelines mention four examples of practices aiming to indirectly guarantee territorial protection which are prohibited when supplier and exclusive distributor agree:

  • that the exclusive distributor shall prevent customers in another territory from visiting their website or shall automatically refer them to the supplier’s or other distributors’ websites,
  • that the exclusive distributor shall terminate an online sale if the purchaser’s credit card data show that the purchaser is not from the exclusive distributor’s exclusive territory,
  • to limit the share of sales made by the exclusive distributor through the internet (but the contract may provide for minimum offline targets in absolute terms and for online sales to remain coherent compared to offline sales).
  • that the exclusive distributor shall pay a higher price for goods intended for sale on the internet than for goods intended for sale offline.

Manufacturers will have to decide whether they adopt a unique European gateway website or multiple local commercial offers, it being known that price differentiation is still possible per category of clients.

Indeed, the new Regulation does not oblige the e-retailers to harmonize their price policies, they must only allow EU consumers to access freely and easily to any version of their website. Likewise, this Regulation does not oblige e-retailers to ship products all over Europe, but just allow EU consumers to purchase goods from whichever website they want and to arrange the shipment themselves, if need be.

Finally on a more contractual level, it is not very clear yet how the new geoblocking rules could impact directly or indirectly the conflict of law rules applicable to consumer contracts, as per the Rome I regulation especially when the consumer will be allowed to handover the product purchased on a foreign website in the country of this website (which imply no specific delivery in the country where the consumer is established).

Therefore B2C general terms and conditions of websites would need to be reviewed and adapted on both marketing and legal sides.

I produttori di marca e i concessionari di licenze sul marchio (detti anche “licenziatari”) hanno spesso un interesse a proibire l’uso del loro marchio da parte di rivenditori non autorizzati, cioè operanti sul mercato “grigio”. Recentemente un tribunale tedesco ha autorizzato un concessionario di un marchio a proibire a un rivenditore non autorizzato la distribuzione di tali beni sul mercato grigio sia online che offline. Ciò in quanto tale distribuzione minaccia di danneggiare la reputazione del marchio registrato.

Produttore di beni di lusso vieta la rivendita online e offline da parte di un rivenditore non autorizzato

Oggetto della questione è se il licenziatario del marchio, sulla base dei propri diritti sul marchio, possa proibire la vendita di prodotti di lusso da parte di rivenditori non autorizzati. Nel caso di specie, il licenziatario è l’affiliato tedesco di un produttore giapponese di prodotti cosmetici di lusso. Esso distribuisce i prodotti, di alta qualità e dal valore molto alto, tramite un sistema di distribuzione selettiva. Il rivenditore non autorizzato è un rivenditore che agisce al di fuori del sistema di distribuzione selettiva. Esso vende prodotti alimentari, beni per la casa, apparecchi elettronici, tessuti, scarpe e, oltre a ciò, anche prodotti cosmetici nella propria piattaforma online e nei propri negozi fisici. Il licenziatario del marchio chiede che al rivenditore non autorizzato sia proibito di distribuire, sia online che offline, prodotti cosmetici i quali rechino il marchio stesso.

Condizioni e motivi per la proibizione del mercato “grigio” delle vendite

La Corte d’Appello di Düsseldorf ha confermato l’ingiunzione originariamente concessa dal Tribunale, sostenendo che una pretesa a un rimedio monitorio sussiste ai sensi del Regolamento sul marchio dell’Unione europea 2017/1001 (Art. 9 co. 2 lett. a). Il rivenditore non autorizzato non potrebbe invocare il principio di esaurimento (art. 15 del Regolamento sul marchio dell’Unione europea), anche qualora il prodotto sia stato posto sul mercato in presenza di / con il consenso del licenziatario (decisione del 6 marzo 2018, caso n. I-20 U 113/17).

Invece, sussisteva una ragione legittima per una pretesa alla proibizione sulla base del Regolamento sul marchio dell’Unione europea (art. 15 co. 2) – con la conseguenza che i diritti sul marchio del licenziatario non erano esauriti. Tale diritto alla proibizione sussiste aldilà degli esempi legislativi della “modificazione” o dell’ “alterazione” dei beni, se l’uso del marchio rischia di danneggiare la reputazione che tali beni godono (cfr. Corte di Giustizia UE, caso C-337/95, “Dior/Evora”). In particolare, i rivenditori non dovrebbero danneggiare l’immagine di lusso di marchi aventi carattere lussuoso e di prestigio tramite i loro messaggi pubblicitari. Comunque, il proprietario del marchio potrebbe proibire l’uso del marchio soltanto se tale uso da parte del rivenditore “danneggia in modo sostanziale” la reputazione del marchio o, come la Corte d’Appello sembra altresì considerare, se “vi è il rischio di un danno alla reputazione” (punto 29 e ss.). Tale danno alla reputazione potrebbe essere causato, per esempio, dall’uso di un canale di distribuzione non conforme al sistema di distribuzione. Ciò sarebbe confermato altresì dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE sulla distribuzione e antitrust nei casi L’Oréal (caso C-31/80), Copad/Dior (caso C-59/08), Pierre Fabre (caso C-439/09) e – più recentemente – Coty Germany (caso C-230/16; vedi qui l’articolo precedente sulle restrizioni alle vendite online): in base a tali decisioni, i produttori di lusso possono proibire ai loro distributori la vendita su piattaforme di terze parti ai fine di mantenere l’immagine di lusso dei beni in questione. Il criterio del “danno all’immagine di lusso” dovrebbe, secondo la Corte d’Appello, essere interpretato in modo uniforme nel diritto dei marchi e nel diritto antitrust sulla distribuzione.

Nel presente caso di distribuzione di prodotti cosmetici di lusso, la Corte ha visto un rischio di danno all’immagine di lusso del prodotto nel caso sia di vendita su piattaforma online (punto 32 e ss.), che attraverso negozio al dettaglio (punto 38 e ss.): in essi la presentazione del prodotto finirebbe per declassare i marchi di lusso a marchi normali – perciò differendo fortemente dai criteri di vendita restrittivi imposti ai rivenditori autorizzati – in quanto il rivenditore non autorizzato offre anche e soprattutto beni per l’uso quotidiano, includenti articoli a basso prezzo, presentanti in modo semplice, in stile “offerta speciale”, senza particolari esaltazioni, in modo indiscriminato e senza offrire alcun servizio di consulenza.

Consigli pratici

  1. I produttori di beni di lusso possono proibire a rivenditori non autorizzati di vendere i loro prodotti di marca attraverso canali di distribuzione contrari al sistema di distribuzione, solo se vi è il rischio di un danno alla loro reputazione. Al fine di affermare l’esistenza di un tale rischio è d’aiuto avere – o stabilire – chiare ed elaborate linee guida sulla vendita e sui criteri di distribuzione nei confronti dei distributori autorizzati, le quali sottolineino chiaramente l’immagine di lusso dei marchi e dei beni nonché il loro carattere di prestigio.
  2. Resta da vedere se la decisione darà luogo a una prassi decisoria più ampia e uniforme all’interno dell’UE (la libera circolazione di beni dev’essere tenuta in conto, vedi Corte Federale Tedesca nel caso “Klacid Pro”, punto 24). In ogni caso, la decisione è in linea con la prassi decisoria sugli accordi di distribuzione selettiva e auspica comprensibilmente una interpretazione uniforme del diritto dei marchi e del diritto antitrust sulla distribuzione – come già fatto dall’Avvocato Generale nel caso Coty riguardante divieti di usare piattaforme di terze parti (punto 71 e ss. delle sue Conclusioni).
  3. Resta inoltre da vedere se a produttori di marca anche al di fuori del segmento del lusso verrà concesso un rimedio monitorio contro rivenditori non autorizzati. Per quanto riguarda i rivenditori autorizzati, si può sostenere che non solo produttori di lusso, ma anche produttori di marca in generale possono proibire la vendita tramite piattaforme di terze parti (vedi il precedente articolo sulle restrizioni alle vendite online). In ogni caso, la prassi decisoria sulle vendite online sta divenendo sempre più chiara, vedi, per esempio, il precedente articolo sui motori di ricerca sui prezzi, qui.
  4. Protezione del marchio all’interno dell’Europa: quando vendono i prodotti all’interno dello Spazio Economico Europeo (= UE più Liechtenstein, Islanda e Norvegia), i produttori di marca e i licenziatari di marchi registrati possono proteggere i loro marchi registrati tramite un doppio sistema: (i) un unico marchio protetto lungo tutto lo Spazio economico europeo e (ii) singoli marchi registrati in ogni paese, in modo da coprire tutti gli stati membri UE. Registrare un marchio UE conferisce al proprietario i diritti esclusivi sullo stesso, e lo autorizza in particolare di proibire:
  • l’apposizione del segno sui prodotti o sul loro imballaggio;
  • l’offerta, l’immissione in commercio o lo stoccaggio dei prodotti a tali fini oppure l’offerta o la fornitura di servizi sotto la copertura del segno;
  • l’importazione o l’esportazione dei prodotti sotto la copertura del segno;
  • l’uso del segno come nome commerciale o denominazione sociale o come parte di essi;
  • l’uso del segno nella corrispondenza commerciale o nella pubblicità;
  • l’uso del segno nella pubblicità comparativa in una maniera contraria alla direttiva 2006/114/CE (art. 9 co. 3 del Regolamento sul marchio dell’Unione europea).

Tali diritti, tuttavia sono esauriti (non possono più essere esercitati) con riguardo a beni recanti il marchio registrato che siano stati immessi nello Spazio economico europeo con il senso del proprietario (cosiddetto principio di esaurimento). Eccezione: un proprietario potrebbe ancora proibire l’ulteriore commercializzazione dei beni in presenza di ragioni legittime. Tali ragioni sussistono, in particolare, laddove lo stato dei beni sia mutato o manomesso dopo che gli stessi sono stati immessi sul mercato, o laddove la vendita di beni recanti il marchio registrato rischi di danneggiare la reputazione, come nel presente caso tedesco.

Once convinced of the utility of mediation as a method of resolving conflicts between franchisor and franchisee and taken the decision to include a clause in the contracts that provides for it, the last step would be what elements should be taken into account when drafting it.

  1. The previous negotiation. It seems advisable that both parties grant themselves the possibility of trying to solve the problem with a previous formal negotiation. Mediation does not exclude the previous attempt made by the interested parties or their lawyers; however, it seems advisable to contractually provide a suitable end according to the circumstances. Experience shows that lengthening this phase too long may result in the conflict becoming more complicated and even more difficult to approach mediation.
  2. The clause may also provide for the place where the mediation will take place. Again at this point the parties are free. It is convenient that this is accurate indicating the concrete city.
  3. The language in which the mediation will be developed is the a faculty of the parties. There will be no difficulty in mediations in which both parties use the same language, but it is very convenient in contracts with parties that have different languages, or that belong to regions or countries with different co-official languages. The drafting or signing of the contract in a specific language does not presuppose that this must be the language of the mediation. It is an element to be taken into account also when requesting a mediator who can use that language in the chosen mediation institution.
  4. The procedure can also be decided by the parties. In particular, the number of sessions, the maximum expected duration, the participation of advisors, etc. Keep in mind that the greater or lesser regulation will allow to avoid future conflicts in this respect, although it will also imply a greater limit to the freedom of the parties that, nevertheless, will remain free to modify the agreement by mutual consent.
  5. The term of the mediation can also be contemplated. This would allow, for example, to prevent mediation from being extended only for purely procedural strategic purposes or to gather information from the other party before starting a procedure, etc. The professional mediators, however, are able to identify these manoeuvres, also having the power to put an end to mediation in those cases.
  6. Choosing the mediator or the mediation institution is an important choice. The parties can agree on who will be their mediator, indicate in the contract the elements to choose it, or submit directly to a Mediation Institution so that it is the one who designates it according to its own rules. These decisions can be alternatives (that is, that the parties agree on the mediator and, in case of lack of agreement, submit to an institution that names it), or they can be unique. The designation of an Institution requires that it has a sufficient guarantee of stability (avoid designating short-term institutions or without much future guarantee), with a sufficient panel of mediators depending on the characteristics of the mediation (language, competence, experience) and that allows the necessary flexibility for its operation.
  7. Finally, it is convenient that the clause includes an alternative way in case the mediation does not succeed either because the parties do not reach an agreement, or because they withdraw from the mediation. It is important to recall that mediation does not close the doors to the conflict be resolved by recourse to ordinary jurisdiction or arbitration. And in terms of specialized arbitration in distribution contracts, the IDArb (https://www.idiproject.com/content/idarb-idi-arbitration-project) is an excellent option.

On the topic of the importance of Mediation in Distribution Agreements, you can check out the recording our webinar “Mediation in International Conflicts”

Rimowa comunica disdetta a tutti i rivenditori in Europa“ – così titolava l’Handelsblatt il 19 marzo 2018. Il motivo? Rimowa, famoso produttore di costose valigie di marca, ristruttura nuovamente nel 2018 – dopo la precedente ristrutturazione del 2011 – la propria catena distributiva. Progetta, in particolare, di introdurre criteri qualitativi ancor più stringenti e distanti dalla concezione di vecchio negozio, al fine di giungere a una sorta di “esperienza dell’acquisto” (cfr. a tal proposito la Süddeutsche Zeitung del 21.03.2018, pag. 16).

È bene premettere che, in via generale, i produttori possono strutturare il loro sistema di distribuzione in modo libero e svilupparlo in base alla loro strategia di mercato. Essi sono inoltre sostanzialmente liberi di scegliere tra differenti intermediari distributivi (rivenditore, franchisee, agente ecc.) e di passare eventualmente anche a sistemi di distribuzione selettiva, al fine di indirizzare la distribuzione secondo determinati criteri (in particolare qualitativi) e di possibilmente ridurre, in tal modo, anche il numero dei rivenditori. Tuttavia, in via eccezionale gli stessi rivenditori possono costringere il produttore a essere riforniti: quando, cioè, si sia in presenza di produttore con un grande potere di mercato. In tal caso, un c.d. obbligo a contrarre, risultando in un obbligo di fornitura, può discendere dal divieto di discriminazione, di cui ai §§ 19 co. 1, 2 n. 1, 20 GWB.

Tale questione assume importanza pratica soprattutto quando, come nel caso di Rimowa, il produttore ristrutturi il proprio sistema di distribuzione. Rimowa l’aveva già fatto nel 2011/2012, quando era passata a una distribuzione selettiva (vedi sulla distribuzione selettiva e le eventuali restrizioni già l’articolo di Legalmondo qui). A tal fine Rimowa ha disdetto i precedenti contratti di concessione di vendita e ha richiesto la sottoscrizione di nuovi contratti, i quali, tra le altre cose, obbligano il rivenditore a presentare le merci in una determinata maniera e ad acquistare e introdurre lo Shop-in-Shop del produttore. Secondo Rimowa, un precedente distributore non corrispondeva più alla nuova concezione del business e alla nuova strategia di marketing. I due, però, non si accordavano per la stipula di un nuovo contratto di concessione di vendita. Così, il rivenditore agiva in giudizio al fine di ottenere la stipula del contratto e con esso anche le forniture per i suoi negozi.

Il Tribunale di Monaco di Baviera rigettava la domanda (sentenza del 09.09.2014, fasc. n. 1 HKO 7249/13), mentre la Corte d’Appello di Monaco di Baviera, viceversa, l’accoglieva (sentenza del 17.09.2015, fasc. n. U 3886/14 Kart): il produttore avrebbe vantato una posizione di vertice “nel rilevante mercato delle valigie costose e di alto valore”, mentre il rivenditore, viceversa, sarebbe stato in una posizione di dipendenza, in quanto le valigie del primo non avrebbero potuto essere sostituite da altre di pari valore. Ciò sarebbe dimostrato da un’alta quota distributiva presso altri rivenditori (il produttore, cioè, sarebbe il fornitore di un alto numero di rivenditori) e dal design unico, con il connesso alto fattore di riconoscimento. Ora la Corte Federale di Revisione (il BGH) ha annullato la sentenza e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello per ulteriore trattazione (sentenza del 12.12.2017, fasc. n. KZR 50/15), con la motivazione che la c.d. dipendenza del rivenditore dalla posizione di vertice del produttore (“Spitzenstellungsabhängigkeit”) non sarebbe stata adeguatamente accertata: se, nella normalità dei casi, la quota distributiva è determinante, in presenza di sistemi di distribuzione selettiva questa sarebbe meno indicativa. Per il caso di ristrutturazione del sistema di distribuzione vale quanto segue:

Qualora un fornitore decida, a un certo punto, di passare a un sistema di distribuzione selettiva, si è solitamente in presenza di una dipendenza da posizione di vertice, qualora con riferimento al periodo antecedente si accerti un’alta quota distributiva.” (punto 19)

Il produttore può opporre eccezione contro la supposta dipendenza da posizione di vertice, indicando quanti rivenditori egli abbia rifornito con prodotti propri (e non solo: anche quanti rivenditori abbiano offerto i prodotti, indipendentemente da quale ne fosse la fonte). Una cosa, questa, che impegnerà ulteriormente i tribunali. Inoltre, la quota distributiva si determina sulla base di quei rivenditori che siano paragonabili a un rivenditore il quale richiede accesso al sistema di distribuzione e alla fornitura (punto 27), come il BGH ha già accertato in precedenza con riferimento a designer di mobili imbottiti (sentenza del 09.05.2000, fasc. n. KZR 28/98, pag. 12 e ss.).

Conclusioni pratiche

  1. Valutare attentamente, in fase di ristrutturazione del sistema di distribuzione, se prevedere o meno delle disposizioni transitorie. Una buona ragione per evitarle potrebbe essere il voler rendere più facile l’esclusione di distributori indesiderati. Pertanto, nel caso Rimowa, la Corte d’Appello di Monaco di Baviera ha respinto l’obiezione del produttore secondo cui il modello commerciale del distributore “mirava ai cacciatori di occasioni“, sostenendo che il produttore avrebbe concesso agli altri distributori un termine di “12 mesi dopo la conclusione dell’accordo” per soddisfare i nuovi criteri qualitativi.
  2. Sui criteri qualitativi nelle vendite via Internet, si rimanda agli altri articoli già pubblicati su Legalmondo, in particolare sui divieti di rivendita via piattaforme internet e sul divieto di strumenti di comparazione dei prezzi.

Il contratto di distribuzione e la distribuzione selettiva

L’ordinamento italiano non prevede una disciplina specifica del contratto di distribuzione. Pertanto, esso risulta regolato, per analogia, dalle norme dettate per il contratto di compravendita, da quelle generali previste in materia di obbligazioni contrattuali, nonché dai principi fissati dalla giurisprudenza in materia. Il contratto di distribuzione non richiede la necessaria forma scritta (che è comunque sempre consigliata).

In questo contesto, il sistema di distribuzione selettiva viene adottato, principalmente, nel settore dei beni di elevato livello tecnologico per i quali l’acquirente necessiti di specifica assistenza o dei beni di lusso, per tutelare gli investimenti effettuati dal titolare in termini di prestigio del marchio. Il produttore o il distributore esclusivo selezionano, sulla base di criteri qualitativi e/o quantitativi (numero e dislocazione geografica), i rivenditori che rispondono a determinati standard di competenza professionale, di qualità del servizio e/o di prestigio del punto vendita, stabiliti dallo stesso produttore.

La distribuzione selettiva è definita dal Regolamento UE 330/2010 del 20.04.2010 (relativo all’applicazione dell’articolo 101, paragrafo 3, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea a categorie di accordi verticali e pratiche concordate) come segue:

un sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema” (art. 1, comma 1, lett. e), Reg. citato).

Trattandosi di una forma di restrizione verticale della concorrenza, essa gode tuttavia dell’esenzione dal divieto di cui all’art. 101 TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), e di quello previsto dall’Art. 2 della Legge n. 287 del 10.10.1990 (Intese restrittive della libertà di concorrenza), ricorrendone i presupposti di cui allo stesso Regolamento 330/2010.

Il rifiuto di fornire i prodotti

In questo quadro, a fronte del rifiuto da parte del produttore/titolare della rete di distribuzione selettiva, un rivenditore che assumesse di avere tutte le qualità richieste, avrebbe il diritto di pretendere di essere inserito nella rete distributiva e, quindi, di essere rifornito dei prodotti oggetto di tale distribuzione commerciale?

Per rispondere a tale domanda occorre innanzitutto rilevare che è un principio generale, secondo l’ordinamento italiano (ma è condiviso da molti altri sistemi giuridici), la c.d. “autonomia contrattuale” che si traduce anche nella libertà di contrarre o meno facente capo ad ogni soggetto. Ne deriva che, di regola, ognuno è libero di rifiutarsi di concludere un contratto e, nel caso di specie, di fornire i propri prodotti ad un rivenditore terzo che ne faccia richiesta.

Le eccezioni a questa regola sono rigidamente stabilite dalla legge, come ad esempio il caso del monopolista legale. Ma si tratta di una fattispecie che non ricorre – com’é evidente – nel caso di un sistema di distribuzione selettiva tra privati.

Le norme antitrust europee e italiane

Prendendo in considerazione le norme antitrust che disciplinano la distribuzione selettiva e la sua esenzione dal divieto di porre in essere intese restrittive della concorrenza, ossia, rispettivamente, l’art. 101, comma 3, TFUE, ed il Regolamento UE 330/2010, a mente dei quali va interpretato l’articolo 2 della L. 287/1990, non vi è modo di ricavare un obbligo a contrarre, per di più, suscettibile di tutela costitutiva in forza dell’art. 2908 Cod. civ. (ossia attraverso una sentenza del giudice che sostituisca il contratto non stipulato), in capo ad un soggetto privato (quindi non un ente pubblico) che non si trovi in posizione di monopolio, nei confronti di un altro soggetto.

Analogamente, anche nel caso in cui l’impresa terza rispondesse ai criteri utilizzati per selezionare i rivenditori della rete distributiva, nessuna norma (tanto meno il Regolamento UE 330/2010) impone all’impresa fornitrice di contrarre con l’impresa terza e, quindi, di farla accedere alla rete distributiva. In tal senso si è recentemente espressa la giurisprudenza in un caso di restrizione verticale negli accordi per la vendita di autoveicoli.

Per cui, anche sotto quest’aspetto, il rifiuto di fornire il rivenditore terzo appare assolutamente legittimo, senza che risulti neppure necessario accertare le caratteristiche del sistema distributivo utilizzato dal produttore/distributore o la compatibilità del medesimo con l’art. 2, L. 287/90.

Ad ogni buon conto, i punti 175 e 176 della Comunicazione della Commissione 19 maggio 2010, 2010/C 130/1, recante Orientamenti sulle restrizioni verticali (indispensabile complemento del Regolamento di esenzione per categoria), chiariscono che:

(i) mentre un sistema puramente qualitativo, di norma, non rientra nell’ambito di applicazione del divieto di intese restrittive della concorrenza, e quindi è lecito a prescindere da qualsiasi esenzione,

(ii) la distribuzione selettiva qualitativa e quantitativa beneficia dell’esenzione per categoria fintantoché la quota di mercato sia del fornitore che dell’acquirente non supera il 30%, anche se ad essa sono combinate altre restrizioni verticali non fondamentali come il divieto di concorrenza e la distribuzione esclusiva, purché i distributori autorizzati non siano soggetti a restrizioni nella vendita attiva tra loro e agli utilizzatori finali. Il regolamento di esenzione per categoria esenta gli accordi di distribuzione selettiva a prescindere dalla natura del prodotto in questione e del criterio di selezione. Tuttavia, se le caratteristiche del prodotto non richiedono una distribuzione selettiva o non richiedono i criteri applicati, come ad esempio la condizione per i distributori di avere uno o più punti vendita «non virtuali» o di fornire specifici servizi, tale sistema di distribuzione non comporta generalmente vantaggi in termini di efficienza tali da compensare una notevole riduzione della concorrenza all’interno del marchio” (n. 176 cit.).

Oltretutto, la regola c.d. “de minimis” (Comunicazione della Commissione Europea relativa agli accordi di importanza minore che non determinano restrizioni sensibili della concorrenza ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (comunicazione «de minimis») 2014/С 291/01 [Gazzetta ufficiale C 368 del 22.12.2001]) prevede che siano esclusi dall’applicazione dell’art. 101 TFUE gli accordi stipulati tra imprese concorrenti la cui quota di mercato complessiva sia inferiore al 10%, ed al 15%, nel caso di accordi tra imprese non concorrenti (ovvero operanti a livelli diversi della catena distributiva, come nel caso della distribuzione selettiva).

In ogni caso, indipendentemente dalla presenza o meno delle condizioni per l’esenzione dal divieto di cui all’art. 101 TFUE, non sussiste alcun obbligo per il produttore/distributore di far accedere alla rete di distribuzione selettiva il rivenditore terzo che ne facesse richiesta, anche avendone, in ipotesi, i requisiti.

Analogamente, dal citato Regolamento UE 330/2010, o altrove, non è ricavabile un obbligo che imponga all’impresa che ha posto in essere un sistema di distribuzione selettivo di rendere noti i criteri di selezione utilizzati ai terzi che ne facciano richiesta, anche considerando che tali criteri hanno un evidente carattere di riservatezza commerciale, riguardando aspetti determinanti delle strategie competitive del produttore/distributore, la cui conoscenza rappresenterebbe un indebito vantaggio per il terzo, che opera, evidentemente, nel medesimo settore di mercato.

Le norme sulla concorrenza sleale

Per completezza, occorre osservare che il rifiuto di fornire il rivenditore terzo potrebbe configurare un atto di concorrenza sleale, vietato ai sensi dell’art. 2598 Cod. civ., potendo rappresentare un caso di “boicottaggio economico primario” consistente nel rifiuto ingiustificato di contrarre da parte di un’impresa. Occorre però tenere presente che, affinché si possa ritenere illecito tale comportamento, si deve verificare la compresenza di due elementi:

1) oggettivo. È, infatti, ritenuto generalmente lecito il boicottaggio individuale diretto, perché manifestazione della libertà dell’imprenditore di scegliere la propria controparte (autonomia contrattuale), salvo il caso in cui questo sia posto in essere da una impresa in posizione dominante (posizione di mercato che consente ad un’impresa di assumere un comportamento significativamente indipendente nei confronti delle imprese concorrenti e dei consumatori, a causa di una considerevole restrizione della concorrenza all’interno del mercato in cui la stessa impresa opera);

2) soggettivo. Occorre che il comportamento commerciale consistente nel boicottaggio sia dolosamente diretto all’esclusione dal mercato del concorrente, e non abbia altra giustificazione, non rientrando nelle abituali strategie di mercato del soggetto che lo pone in essere.

Ma anche nell’ipotesi sopra descritta, il rifiuto (ingiustificato e deliberato) di concludere il contratto non comporterebbe per il produttore/distributore l’obbligo di far accedere il terzo nella rete di distribuzione selettiva, ma solo quello di risarcire il relativo danno.

L’esecuzione in forma specifica

In ogni caso, un Giudice non potrebbe mai condannare il titolare della rete di distribuzione selettiva a fornire il terzo per il semplice motivo che i casi in cui è prevista, dall’ordinamento italiano, l’esecuzione in forma specifica di un obbligo a contrarre richiedono sempre necessariamente o che il contenuto del contratto definitivo sia stato predeterminato dalle parti medesime attraverso un precedente contratto, come nel caso dell’esecuzione del contratto preliminare, prevista dall’art. 2932 cod. civ., oppure che il contratto definitivo sia predeterminato in maniera rigorosa dal mercato, in quanto, trattandosi di monopolista legale, come è appunto il caso dell’art. 2597 cod. civ., si tratta soltanto di applicare le condizioni contrattuali che lo stesso pratica nel mercato al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i contraenti.

In un’ipotesi come quella in esame, al contrario, l’oggetto del contratto sarebbe assolutamente indeterminato ed indeterminabile ed, in assenza di qualsiasi parametro, il giudice non potrebbe stabilirne autonomamente il contenuto.

L’autore di questo articolo  è Davide Grill.

It is not only since the days of the Internet that brand manufacturers have had to contend with the fact that original products are offered outside of their authorized sales channels. The problem has since been significantly exacerbated, however. The relevant products are also referred to as gray market products.

The internal market of the European Economic Area makes it possible to exploit certain price advantages – that is, purchasing in one Member State at a price that is lower than in other Member States and selling to the end customer while passing on (or not passing on) the purchasing advantage. This is made possible by the “exhaustion regime”, according to which the sale of products, which at one time were made available in the European Economic Area with the copyright holder’s consent, cannot be prohibited.

Brand manufacturers’ attempts to counter this issue by means of distribution systems may be an effective instrument, but only if all distribution partners adhere to it. If a distribution partner pulls out, trademark owners (at least in Germany) are initially required to contact their distribution partner who is acting contrary to the contract. That is difficult when the distribution channel of the products in question cannot be traced by security systems (such as SKU numbers) beyond any doubt. A right to information against a third party generally does not exist. Thus, neither the distribution system itself nor the suspicion that the products are not of EU origin may be used easily to justify a right to information in selective or exclusive distribution. The Federal Court of Justice, for example, sees no reason to deviate from the exhaustion doctrine when implementing a selective distribution system (Federal Court of Justice, 1 ZR 63/04). In the case of a selective or exclusive distribution system (Federal Court of Justice, I AR 52/10), the burden of proof is reversed. Accordingly, it is initially the brand manufacturer itself that is responsible for providing evidence for its allegation of a non-EU product.

Exceptions are only made where, for example, the SKU numbers were modified, since this makes clarification difficult. In such cases, trademark infringement and at the same time breach of competition law are given by way of exception and it is not possible for the dealer to invoke exhaustion (Federal Court of Justice I ZR 1/98). The deliberate misleading of the authorized dealer by a third party to breach the contract is also recognized as an exception (Federal Court of Justice I ZR 96/04), which regularly is not verifiable, however.

By the way, the sensational December 2017 Coty decision of the Court of Justice of the European Union (CJEU C-230/16) (here you can find more: https://www.legalmondo.com/2017/12/eu-court-justice-allows-online-sales-restrictions-coty-case/) has not changed this basic presumption, either. In its Coty decision, the CJEU in the end confirms the exhaustion priority also and particularly for luxury products by referring to existing case law (specifically ECJ C-59/08).

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There are, however, more options available. As confirmed by the ECJ (ECJ, C-337/95), an exemption from the exhaustion principle already applies when the type of sale may be designed to damage the reputation of the trademark. In the Court’s opinion, this applies to the sale of products at discounters, if such a sale damages the reputation of the products to an extent that their luxurious image and quality is called into question (ECJ, C-59/08). This applies, on the one hand, if other products are sold in the immediate “neighborhood” to the branded product, without meeting the same quality requirements (ECJ, C-337/95) or if the advertising methods are unsuitable (ECJ, C-63/97). Hamburg Regional Court, for example, found that the use of photographs that are unsuitable and detrimental to the luxury image of a brand justifies a prohibition claim (at least with respect to use of the photos) (Hamburg Regional Court, 315 O 339/13). The Federal Court of Justice saw improper handling of the brand in an erroneous and negligent labeling of products (Federal Court of Justice, I ZR 72/11).

Düsseldorf Higher Regional Court has now also followed these CJEU guidelines by prohibiting the sale of high-priced cosmetic products, which are distributed in the framework of a strictly regulated selective distribution system, at a discounter (Düsseldorf Higher Regional Court, I-20 U 113/17). The Court explicitly referenced the CJEU, by repeating its principles and then applying them in the case of the discounter:

The permanent and extensive sale of the cosmetic products at issue on the online platform www…de is suitable to significantly impair the image of the application brands. The way in which the products are presented there draws the application brands into the mundane and ordinary. As the relevant public is used to from the multitude of Respondent’s conventional self-service department stores, the offering on www…de of everyday products is frequently dominated in the form of particularly low priced own labels, such as Z.’s own label O. Respondent’s motto applies here as well. The assortment ranges from food to electronics, household goods, clothing to cosmetics. Since Respondent’s online presence was merged with that of the company B that it had acquired, it is moreover not only Respondent that offers its goods for sale on the platform, but also third parties may market goods via the online platform. The portal is designed to be functional and oriented toward products that are on sale. Customers are able to collect PAYBACK points with each purchase and may make use of financing. In some cases, goods are advertised at “instead of prices and red letters indicate in attention-getting manner what percentage customers will save compared to the original prices. Product consultation does not take place.

By offering luxury products at random alongside every-day and mass products without any kind of prominent presentation and becoming affordable through financing options, the products would be placed on a level with the other items offered, thereby significantly affecting the prestige value of the products. For this reason, Düsseldorf Higher Regional Court pronounced a complete ban on distribution for the online platform and the department stores.

Conclusion:

Even if the Düsseldorf Higher Regional Court’s decision is not to be considered revolutionary in light of existing CJEU case law, it certainly ensures some impetus in proceeding against gray market dealers, since national courts are now no longer facing the “uncomfortable” hurdle of applying CJEU case law, but rather in the customary fairway of national case law. In principle, Düsseldorf Higher Regional Court case law may not be understood as a blank check, however. Even Düsseldorf Higher Regional Court did not allow a general ban, but rather weighed individually whether the distribution in its concrete form could be prohibited. In the future, it will also be important to work out what in particular will determine the extent of the ban.

The author of this post is Ilja Czernik.

We have seen in a previous post the advantages of mediation as an alternative dispute resolution method in franchise agreements. From there, what recommendations could we give to make better use of mediation? Although we will have to adapt them to each specific case, the following points could be very useful:

  1. Specifically foresee in the contract a mediation clause as an alternative dispute resolution method. Although the franchisee and franchisor can agree to mediate once the conflict arises without having reflected it in the contract, it will surely be more complicated to do so when both have already initiated the discrepancies. It is preferable, therefore, to do it before: it places the parties in a better predisposition, they will be able to choose the procedure in a better way, as well as the institution, the mediator, the formalities, etc.
  2. If the parties have agreed on a mediation agreement, this may be initiated at the request of only one of them, without having to re-reach an agreement.
  3. The mediation clause is also recommended, because once an application for the initiation of mediation has been agreed upon, the limitations period of the legal actions will be suspended until the termination of the mediation.
  4. By virtue of this agreement and having initiated the mediation, the courts will not be able to hear such controversies during the time in which the mediation takes place, provided that the interested party invokes it.
  5. In the clause, it is convenient to foresee some elements, such as what issues may be the subject of mediation (all or only some of them), the need or not of a previous negotiation, adequate deadlines to avoid that this procedure can be used to delay other ways, the applicable law to mediation and to the agreement reached with it, the competent jurisdiction for the adoption of precautionary measures, where appropriate, or the jurisdiction or arbitration to settle the dispute in case of failure of mediation.
  6. It is true that one of the principles of mediation is its voluntary nature. However, the existence of the clause and being obliged to attend at least one informative session before initiating any judicial procedure can convince of its advantages even the most reticent party.
  7. Include the mediation as an alternative dispute resolution method within the pre-contractual information that the franchisor must deliver to potential franchisees. Although the Spanish norm does not seem to expressly demand that reference be made, this seems an optimal moment to show transparency and the will to solve possible problems in an agile manner. It also predisposes the good understanding, cooperation and good faith of the franchised brand before the beginning of relations.
  8. Appropriately select the mediation institution to which to refer in case of conflict or foreseeing the best way to choose the most appropriate mediator. Currently there are many institutions or professionals that offer guarantees of impartiality. It may be relevant that it is a mediator with specific training, who facilitates the communication and confidence of the parties and, insofar as possible, who can fully understand the nature of the franchise. There are institutions in Spain such as the Signum Foundation (http://fundacionsignum.org/) or MediaICAM of the Madrid Bar Association (https://mediacion.icam.es) that can be good choices.

On the topic of the importance of Mediation in Distribution Agreements, you can check out the recording our webinar “Mediation in International Conflicts”

Ignacio Alonso

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