Nuove norme su pratiche commerciali sleali e requisiti contrattuali nella filiera agricola e alimentare

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Riassunto

Con il D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 198 l’Italia ha dato attuazione alla Direttiva (UE) 2019/633 in materia di pratiche commerciali sleali nei rapporti tra imprese (B2B) nella filiera agricola e alimentare. Il legislatore italiano ha introdotto regole più stringenti di quelle previste dalla direttiva. Inoltre, ha previsto alcuni requisiti contrattuali obbligatori, nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, ma più restrittivi di quelli del Regolamento. Le nuove disposizioni si applicano qualunque sia la legge applicabile al contratto e qualunque sia il paese dell’acquirente, quindi riguardano anche i rapporti transfrontalieri. Hanno un impatto significativo sui rapporti contrattuali relativi alla filiera dei prodotti alimentari, freschi e trasformati, compreso il vino, e di alcuni prodotti agricoli non alimentari, e richiedono alle imprese dei settori coinvolti di rivedere i propri contratti e le proprie prassi operative nei rapporti con clienti e fornitori.

Le previsioni introdotte dal decreto trovano applicazione anche ai contratti in corso, che dovranno essere resi conformi entro il 15 giugno 2022.

Introduzione

Con la Direttiva (UE) 2019/633 il legislatore dell’Unione ha introdotto una serie dettagliata di pratiche commerciali sleali relative ai rapporti tra imprese nella filiera agricola e alimentare, con la finalità di contrastare le pratiche commerciali squilibrate imposte dai contraenti forti. La direttiva è stata recepita in Italia con il D.Lgs. 8 novembre 2021 n. 198 (entrato in vigore il 15 dicembre 2021) che ha introdotto un lungo elenco di previsioni qualificate come pratiche commerciali sleali nell’ambito dei rapporti fra le imprese nella filiera agricola e alimentare. L’elenco delle pratiche sleali è più numeroso di quelle previste dalla direttiva UE.

Il recepimento della direttiva è stato l’occasione, poi, per introdurre alcuni requisiti obbligatori dei contratti di cessione dei beni rientranti nell’ambito di applicazione del decreto. Questi requisiti, adottati nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, sostituiscono, ampliandoli, quelli previsti dall’art. 62 del D.L. 1/2012 e dall’art. 10-quater del D.L. 27/2019.

Campo di applicazione

La normativa si applica alle relazioni commerciali tra acquirenti (compresa la pubblica amministrazione) e fornitori di prodotti agricoli e alimentari e in particolare ai contratti di cessione B2B di tali prodotti.

Sono esclusi i contratti in cui è parte un consumatore, le cessioni con contestuale pagamento e consegna del bene e i conferimenti di prodotti a cooperative o a organizzazioni di produttori ai sensi del D.Lgs. 102/2005.

La definizione di contratti di cessione è ampia e include, tra l’altro, i contratti di vendita, di somministrazione e di distribuzione.

Per prodotti agricoli e alimentari si intendono i beni elencati all’Allegato I del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nonché quelli non previsti in tale allegato ma che possono essere trasformati per uso alimentare a partire da essi. Sono compresi tutti i prodotti della filiera agroalimentare, freschi e trasformati, incluso il vino, oltre ad alcuni prodotti agricoli fuori dalla filiera alimentare, tra cui i mangimi per animali non destinati all’alimentazione umana e i prodotti della floricoltura.

La normativa si applica alle cessioni eseguite da fornitori stabiliti in Italia, mentre non ha rilevanza il paese in cui sia stabilito l’acquirente. Si applica qualsiasi sia la legge applicabile al rapporto fra le parti. Perciò la nuova disciplina si applica anche nel caso di rapporti contrattuali internazionali soggetti ad una normativa di altro paese.

Nel recepimento della direttiva, il legislatore italiano ha deciso di non tenere in considerazione le dimensioni delle parti: mentre la direttiva prevede soglie di fatturato e si applica ai rapporti contrattuali in cui l’acquirente ha un fatturato pari o superiore al fornitore, la normativa italiana si applica indipendentemente dal fatturato delle parti.

Così come ha fatto l’Italia, è possibile che i singoli Stati membri non si siano limitati a un mero recepimento delle previsioni UE, ma abbiano introdotto ulteriori disposizioni che potrebbero incidere in maniera significativa sulle relazioni commerciali.

Per le imprese che operano con l’estero sarà dunque importante comprendere come sia stata data attuazione alla direttiva UE nei vari paesi membri dell’Unione, soprattutto nel caso di gruppi con un’estesa operatività transfrontaliera, i quali si avvalgono solitamente di modelli contrattuali uniformi.

Requisiti contrattuali

L’art. 3 del decreto ha introdotto alcuni requisiti obbligatori dei contratti di cessione di prodotti agricoli e alimentari. Questi requisiti, adottati nella cornice dell’art. 168 del Regolamento (CE) 1308/2013, sostituiscono, ampliandoli, quelli stabiliti dall’art. 62 del D.L. 1/2012 e dall’art. 10-quater del D.L. 27/2019 (che sono stati abrogati).

I contratti devono essere conformi ai principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni.

I contratti devono avere forma scritta. Sono ammesse forme equipollenti (documenti di trasporto, fatture e ordini di acquisto) solo se tra fornitore e acquirente è stato concluso un accordo quadro contenente gli elementi essenziali dei futuri contratti di cessione.

Di grande impatto è l’obbligo che i contratti abbiano una durata di almeno 12 mesi (i contratti di durata inferiore sono automaticamente prolungati alla durata minima). Il legislatore impone alle imprese della filiera (salvo alcune possibilità di deroga) di operare non con acquisti singoli ma con contratti di fornitura continuativi, che devono contenere indicazioni circa la quantità e le caratteristiche dei prodotti, il prezzo, la modalità di consegna e di pagamento.

È richiesto un notevole cambiamento operativo, per la necessità di programmare e contrattualizzare quantità e prezzi delle forniture. Per quanto riguarda il prezzo, non sembra più possibile concordarlo di volta in volta nel corso del rapporto, sulla base degli ordini o dei nuovi listini del fornitore. Il prezzo può essere fisso o determinabile secondo i criteri stabiliti nel contratto. Perciò le imprese che non vogliano operare a prezzo fisso, dovranno elaborare clausole contrattuali contenenti i criteri di determinazione del prezzo (ad esempio legandolo a quotazioni della borsa merci, a variazioni dei prezzi delle materie prime o dell’energia).

La durata minima di almeno 12 mesi può essere contrattualmente derogata. Ma la deroga deve essere motivata, per la stagionalità dei prodotti o per altri motivi che non sono specificati nel decreto. Tra gli altri motivi, potrebbe esservi la necessità per l’acquirente di far fronte a un imprevisto aumento della domanda, oppure la necessità di sostituire una fornitura venuta meno.

Le disposizioni sopra descritte possono essere derogate anche da accordi quadro stipulati dalle organizzazioni professionali maggiormente rappresentative.

Pratiche commerciali sleali vietate e deroghe specifiche

Il decreto prevede diverse fattispecie qualificate come pratiche commerciali sleali, alcune delle quali aggiuntive rispetto a quelle previste dalla direttiva.

L’art. 4 prevede due categorie di pratiche vietate, che recepiscono quelle della direttiva.

La prima riguarda le pratiche sempre vietate, tra le quali vi è anzitutto il pagamento del prezzo oltre i 30 giorni per i prodotti deperibili e oltre i 60 giorni per i prodotti non deperibili. Vi rientrano poi l’annullamento con scarso preavviso di ordini di prodotti deperibili; le modifiche unilaterali di determinate condizioni contrattuali; le richiesta di pagamenti non connessi alla vendita; le clausole contrattuali che obbligano il fornitore a farsi carico del deperimento o perdita dei prodotti dopo la consegna; il rifiuto di confermare per iscritto le condizioni contrattuali da parte dell’acquirente; l’acquisizione, utilizzazione e divulgazione di segreti commerciali del fornitore; la minaccia di ritorsioni commerciali da parte dell’acquirente verso il fornitore che intende esercitare diritti contrattualmente previsti e la richiesta di risarcimento dell’acquirente dei costi sostenuti per esaminare i reclami dei clienti relativi alla vendita di prodotti del fornitore.

La seconda categoria riguarda pratiche che sono vietate salvo siano previste in un accordo scritto fra le parti: in essa vi rientrano la restituzione dei prodotti invenduti senza corrispondere alcun pagamento per essi o per il loro smaltimento; le richieste al fornitore di pagamenti per immagazzinare, esporre, inserire nelle liste o per la messa in commercio dei prodotti; le richieste al fornitore di farsi carico dei costi relativi agli sconti, alla pubblicità, al marketing e al personale dell’acquirente incaricato di organizzare gli spazi destinati alla vendita dei prodotti.

L’art. 5 prevede ulteriori fattispecie sempre vietate, aggiuntive rispetto a quelle della direttiva, quali il ricorso a gare ed aste a doppio ribasso; l’imposizione di condizioni contrattuali eccessivamente onerose per il fornitore; l’omissione nel contratto degli elementi indicati nell’art. 168, par. 4 del Regolamento (UE) n. 1308/2013 (tra i quali prezzo, quantità, qualità, durata del contratto); l’imposizione diretta o indiretta di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per una delle parti; l’applicazione di condizioni diverse per prestazioni equivalenti; l’imposizione di prestazioni o servizi accessorie non connessi alla vendita dei prodotti; l’esclusione degli interessi moratori a danno del creditore o delle spese di recupero dei crediti; le clausole che impongono al fornitore un termine minimo dopo la consegna per poter emettere la fattura; l’imposizione del trasferimento ingiustificato del rischio economico su una delle parti; l’imposizione da parte del fornitore di prodotti con data di scadenza troppo brevi, del mantenimento di un determinato assortimento di prodotti, di inserimento di prodotti nuovi nell’assortimento e di posizioni privilegiate di determinati prodotti nei locali dell’acquirente.

Una disciplina specifica è prevista per la vendita sottocosto: l’art. 7 stabilisce che, per quanto riguarda i prodotti freschi e deperibili, questa pratica sia consentita solamente nei casi di prodotti invenduti a rischio deperibilità o nel caso di operazioni commerciali programmate e concordate con il fornitore in forma scritta, mentre in caso di violazione di tale previsione il prezzo stabilito dalle parti è sostituito di diritto.

Sistema sanzionatorio e autorità di vigilanza

Le previsioni introdotte dal decreto, sia per quanto riguarda i requisiti contrattuali che le pratiche sleali, sono assistite da un articolato sistema sanzionatorio.

Sono nulle le clausole contrattuali o pattuizioni contrarie ai requisiti contrattuali obbligatori, quelle che integrano pratiche commerciali sleali e quelle contrarie alla disciplina delle vendite sottocosto.

È prevista una sanzione pecuniaria, specifica per ogni fattispecie, che viene determinata fra un minimo fisso (che, a seconda dei casi, può essere da 1.000 fino a 30.000 euro) ed un massimo variabile legato (tra il 3 ed il 5% al fatturato del trasgressore); si prevedono poi determinati casi nei quali la sanzione è ulteriormente aumentata.

In ogni caso sono fatte salve le azioni per il risarcimento del danno.

La vigilanza sul rispetto delle disposizioni previste dal decreto è rimessa all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), il quale può condurre indagini, eseguire ispezioni in loco senza preavviso, accertare le violazioni, imporre all’autore di porre fine alle pratiche vietate e avviare il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, fermo restando le competenze dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM).

Attività suggerite

Le previsioni introdotte dal decreto trovano applicazione anche ai contratti in corso, che dovranno essere resi conformi entro il 15 giugno 2022, dunque:

  • le imprese interessate, italiane ed estere, dovrebbero svolgere una ricognizione delle proprie prassi commerciali, dei contratti in corso e delle condizioni generali di fornitura e acquisto, per poi individuare gli eventuali gap rispetto alle nuove previsioni ed adottare i relativi correttivi.
  • considerando poi che la nuova normativa è di applicazione necessaria ed è di derivazione UE, per le imprese che fanno affari con l’estero sarà importante comprendere come sia stata data attuazione alla direttiva UE nei paesi in cui operano e verificare la conformità dei contratti anche a tali norme.
Simone Rossi
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