- Italia
Influencer e pubblicità: un rapporto problematico
6 Agosto 2018
- Media
Il tema degli influencer e del loro rapporto con la disciplina in materia di pubblicità è uno dei più interessanti degli ultimi anni, e a cui molti operatori del settore stanno dedicando energie e denaro.
In questo contributo torneremo a parlare dei problemi giuridici che l’influencer marketing rende necessario affrontare.
Molti sono i profili problematici che possono derivare dall’attività degli influencer, che sorgono in virtù di un principio fondamentale della pubblicità: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale.
Ebbene, si sa che gli influencer, data la fama di cui godono sui social network, Instagram fra tutti, spesso vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che ne hanno fatto richiesta. Lo schema appena descritto ben può essere considerato una vera e propria attività pubblicitaria, dal momento che si riscontra la presenza di un soggetto che, dietro pagamento, svolge un’attività di propaganda diretta a render noto un prodotto alla collettività. Tuttavia, questo schema, di solito, non è accompagnato da alcun cenno al fatto che l’attività svolta dagli influencer sia una vera e propria attività pubblicitaria: essi si limitano a pubblicare la foto e a descrivere, naturalmente in maniera positiva, il prodotto, come se fosse “un racconto privato nello stile di Instagram” (ingiunzione del Comitato di Controllo IAP n. 57/2018).
Ed è sicuramente partendo da queste riflessioni che, negli ultimi due mesi, si è assistito ad un vero e proprio giro di vite nello IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il Comitato di Controllo dello stesso IAP ha notificato a molti influencer, nonché alle imprese che producono i beni oggetto dell’attività in esame, delle ingiunzioni, dirette a inibire la pubblicazione di alcuni post di cui gli influencer stessi erano autori.
Elemento comune di tutte queste ingiunzioni è la censura di un comportamento diretto a mostrare un’attività squisitamente pubblicitaria come se fosse una scelta spontanea dell’influencer, il che comporta una situazione in cui, utilizzando le parole dell’ingiunzione n. 61/2018 del 14 giugno 2018, vi sono “comunicazioni che veicolano un contenuto eminentemente promozionale del prodotto e del brand in questione, che non risulta però sufficientemente esplicito e dunque immediatamente riconoscibile dal pubblico”.
Ed infatti, nelle ingiunzioni citate, ma anche in altre come ad esempio l’ingiunzione n. 51/2018, ciò che si contesta è la violazione dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, fonte del principio summenzionato per cui la comunicazione pubblicitaria deve essere sempre riconoscibile come tale e che prevede, inoltre, che “nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.
Gli interventi del Comitato di Controllo coinvolgono non solo gli influencer, ma anche le imprese, poiché esse, di fatto, beneficiano di un’attività che può essere considerata una forma di pubblicità occulta.
Ci sia permesso un rilievo. Si prenda ad esempio l’ingiunzione n. 50/2018, relativa a due post della blogger ed influencer Chiara Nasti, che la ritraevano con dei prodotti col marchio “Sunsilk”: dopo aver rilevato che i due post del profilo Instagram di Nasti violavano il summenzionato art. 7 del Codice di Autodisciplina, si fa menzione alla necessità irrinunciabile della “trasparenza delle comunicazioni”, che consenta una distinzione effettiva, e non solo formale, delle comunicazioni promozionali da ogni altro tipo di comunicazione.
Analizzando le linee-guida elaborate in materia dallo IAP, la c.d. “Digital Chart”, emerge che viene ritenuto sufficiente, ai fini della distinguibilità di una comunicazione pubblicitaria come tale, che un post su Instagram o su un altro social network presenti un tag con su scritto #advertising, o addirittura solamente #ad.
Sotto questo profilo, le linee guida dello IAP potrebbero lasciare un po’ perplessi. Pur riconoscendo che la scelta in esame è un tentativo di mediare tra l’esigenza di tutelare il consumatore e le caratteristiche proprie dell’attività di influencer, è lecito dubitare che il tag #ad, apposto ad una fotografia su un social network, sia di per sé idoneo a rendere evidente, all’utente e al consumatore medio, che il post che si sta guardando integra un messaggio pubblicitario. Infatti, si può presumere che siano molti gli utenti che non sanno che il termine “ad” sia l’abbreviazione di “advertising”, tanto più se si tiene conto che spesso l’utenza media degli influencer è rappresentata da giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il tag #ad, in poche parole, riuscirebbe a “mascherare” l’attività pubblicitaria.
D’altro canto, a queste conclusioni sono giunti anche l’italiana Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e alcuni giudici tedeschi (e l’ordinamento tedesco è noto per essere particolarmente attento al diritto delle nuove tecnologie). Si guardi in tal senso al Caso 13 U 53/17, deciso dalla Celle Higher Regional Court, in cui si è fatto proprio riferimento al tag #ad, giungendo a delle conclusioni analoghe a quelle summenzionate.
È bene poi rilevare che, fino a questo momento, si è fatto riferimento al Codice di Autodisciplina, un testo normativo emanato dallo IAP, le cui ingiunzioni o decisioni vincolano solo le imprese aderenti al suo sistema autodisciplinare.
È chiaro, tuttavia, che sia applicabile , in fattispecie come quelle sopradescritte, una normativa statuale italiana, ossia il c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).
La pubblicità occulta integra anche una violazione del divieto di pratiche commerciali ingannevoli e scorrette, stabilito in diverse disposizioni di cui al Codice del Consumo, per l’appunto.
Le conseguenze non sono da poco, dal momento che il suddetto Codice e i Regolamenti Attuativi prevedono l’intervento dell’AGCM o dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM), entrambe dotate di poteri sanzionatori nei confronti di qualsiasi soggetto (con particolare riferimento al profilo pecuniario).
Quel che emerge da questa breve disamina è che il fenomeno, cui essa è dedicata, è particolarmente interessante e diffuso in tutto il mondo. Per questa ragione, ciò che viene auspicato è un confronto sull’argomento con i colleghi di Legamondo, ai quali chiediamo di raccontarci cosa accade nei loro Paesi o di mettersi in contatto con noi.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.
Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.
Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).
Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.
Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.
È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.
Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?
La risposta sarebbe semplicissima.
Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.
In Italia, in assenza di una normativa che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.
Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: “Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con …brand” o “in partnership with …brand” e/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.
L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.
Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.
E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad” non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.
Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.
La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.
Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.
Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
La legge sul diritto d’autore in Italia (L. 633/1941) e le legislazioni di moltissimi paesi europei non garantiscono protezione alle creazioni pubblicitarie e alle relative campagne.
Gli articoli 1 e 2 della legge sul diritto d’autore elencano diverse opere dell’ingegno protette ma non includono i claim e le creazioni pubblicitarie. Dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che le ideazioni pubblicitarie non siano ricomprese in tale elenco, neppure interpretandolo estensivamente.
A tale carenza supplisce, o dovrebbe supplire, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, (di seguito “Il Codice”).
L’art. 13 del Codice dispone quanto segue:
“Art. 13 – Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto.”
Sulla base dei principi che si desumono dalla giurisprudenza autodisciplinare, che si è trovata spesso a dover applicare l’art. 13 del Codice, emerge che i requisiti per l’ottenimento di una tutela ai sensi dell’art. 13 sono due: novità e originalità della comunicazione pubblicitaria.
È nuova un’idea che non sia stata in precedenza utilizzata da altri o, se è stata utilizzata, non sia più nella memoria dei consumatori.
È originale l’idea che sia il risultato di uno sforzo creativo apprezzabile.
Non sono originali e quindi non sono proteggibili le comunicazioni pubblicitarie che si avvalgono di stereotipi: ne è un esempio l’idea del confronto side-by-side su due piatti per mostrare l’efficacia di un detersivo.
Altro principio cardine consiste nel bilanciamento tra originalità e proteggibilità contro le imitazioni: tanto più una comunicazione è originale (e quindi non descrittiva del prodotto che intende pubblicizzare), tanto più sarà proteggibile nei confronti di comunicazioni simili.
L’art. 13 del Codice consente di proteggere sia il “cuore” di una campagna, ossia l’idea che ne costituisce l’essenza, sia la sola forma: ciò significa che se una campagna dotata di un “cuore” creativo diverso rispetto ad una campagna precedente di un soggetto terzo utilizza però i medesimi stilemi o un claim simile o identico, viene considerata illecita sulla base dell’art. 13 del Codice.
La giurisprudenza del Giurì negli anni ha affermato un principio fondamentale che ha costituito, per chi si occupa di diritto della pubblicità, un forte punto di riferimento: in presenza di un vero e proprio “calco” di una idea o di un claim altrui, specie se di un concorrente, il grado di originalità richiesto per potere accordare tutela alla prima ideazione pubblicitaria è praticamente nullo.
Anche un’idea o un claim banale potevano essere protetti sulla base dell’art. 13 del Codice qualora venissero copiati pedissequamente, specie se ciò accadeva per pubblicizzare prodotti della medesima categoria merceologica o idonei a soddisfare i medesimi bisogni.
Con la recentissima pronuncia n. 5/2018, il Giurì sembra avere modificato il proprio orientamento, con particolare riferimento al concetto di novità e di imitazione rilevante.
Il caso oggetto della decisione vedeva contrapposte due società concorrenti nel settore dell’ortofrutta: La Linea Verde (titolare del marchio Dimmidisì e produttrice dei prodotti contraddistinti da tale marchio) e Del Monte.
La Linea Verde ha iniziato ad utilizzare il claim “Tutti dicono di sì” all’inizio del 2017 in diverse campagne online e cartacee e in fiere di settore.
Alcuni mesi dopo (ottobre 2017) Del Monte ha utilizzato il claim “Tutti dicono sì” nell’ambito di proprie campagne pubblicitarie.
La Linea Verde ha quindi diffidato Del Monte a interrompere la propria campagna e, successivamente, ha depositato un’istanza al Giurì per la violazione dell’art. 13 del Codice.
In tale decisione, il Giurì dopo avere:
- accertato che i due claim “Tutti dicono di sì” e “Tutti dicono sì” sono comunicazionalmente identici, sia dal punto di vista formale (poiché il “di” è assolutamente irrilevante), sia dal punto di vista del contenuto, poiché entrambi i claim suggeriscono adesione e simpatia ai relativi prodotti;
- accertato l’anteriorità dell’uso del claim da parte di La Linea Verde, statuendo, tra le altre cose, che la divulgazione sul web e in una fiera di settore, anche se non sono comunicazioni censite dai motori di ricerca pubblicitari (come Easy way), sono adeguate a provare l’anteriorità di una comunicazione;
- accertato che il claim non era mai stato utilizzato in precedenza nel mercato di riferimento e neppure in altri mercati nel decennio precedente;
ha però affermato che lo slogan Del Monte deve considerarsi “logico sviluppo di una ideazione pubblicitaria che Del Monte, incontestabilmente, ha proposto da lungo tempo”, riferendosi alla nota pubblicità, “L’uomo Del Monte ha detto sì”, diffusa tra gli anni ’80 e ’90 e a quella meno nota “Sì al meglio, sì a Del Monte”.
Il Giurì ha in particolare affermato che, anche se si verifica una sovrapposizione formale tra i due claim, i due messaggi hanno una propria fisionomia che ne impedisce la loro sovrapposizione nella percezione del pubblico (ciò, a mio avviso contraddicendosi, dopo avere riconosciuto nella stessa decisione che i due claim suggeriscono il medesimo significato, ossia adesione e simpatia ai prodotti).
Pare quindi che la giurisprudenza del Giurì abbia operato una svolta importante in tema di imitazione e confondibilità dei claim (art. 13). E’ stato ritenuto lecito usare due claim (formalmente e ideologicamente) identici, ritenuti originali, sulla base di una continuità tra un’espressione specifica (“tutti dicono sì”) ed il percorso comunicativo (il “dire sì” di Del Monte).
Si tratta di un cambio di direzione del quale occorre prendere atto e che potrà, in futuro, creare grossi problemi ai creativi ed ai loro avvocati: non sarà sufficiente verificare se un claim o una idea pubblicitaria è già stata utilizzata da altri, ma bisognerà anche accertare che essa non possa costituire “un logico sviluppo” di una comunicazione, diversa, altrui. Giudizio, quest’ultimo, che si presenta dotato di una straordinaria soggettività, ai danni della certezza del diritto, principio cardine di ogni ordinamento giuridico.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
These days, influencer marketing is an indispensable part of virtually any marketing strategy. The attention gained through influencer marketing has recently been a subject of discussion among the competition associations as well.
As a forerunner, the Association of Social Competition seems prepared to take a closer look at the topic, as indicated by several media statements. According to its general manager Angelika Lange, the association has already issued warnings to several dozen influencers (https://www.wuv.de/marketing/die_influencer_jaeger ).
The association does not shy away from litigation, either. Following Celle Higher Regional Court’s decision on the external presentation of influencer advertising in June 2017, Hagen Regional Court (September 13, 2017 – Case 23 O 30/17) dealt not only with the external presentation but also with the content of an influencer’s statements.
Influencer Scarlett Gartmann is said to have advertised various products on her Instagram account without marking the content or individual sections as “advertising” (“Anzeige”) or “promotion” (“Werbung”). Hagen Regional Court, like Celle Higher Regional Court, considered this a violation of the marking obligations under competition law.
While this decision was to be expected, what is noteworthy is the component that deals with the content. The regional court obviously also had to decide on the use of the term detox by the influencer, which the Court considered a “health claim” in combination with the drink that was advertised by means of a photograph. Such a claim would not be permitted, however, which is why another prohibition claim against the influencer existed.
Practical tip
Particularly in areas that are sensitive to regulatory requirements, such as food law or medical device law, influencers and companies that are commissioning influencers should check in advance whether certain statements can actually be made as planned. Even though the external form can be preserved relatively easily by marking the text as “advertising” or “promotion,” there may be considerable and costly warning potential when the content of statements is examined, which the competition associations increasingly seem intent on exploiting.
The author of this post is Ilja Czernik.
The eSports sector is growing rapidly as illustrated by the following figures:
In 2017, the eSports economy grew to US-$696 million, a year-on-year growth of 41.3%.
Brands invested $517 million in 2017, which is expected to double by 2020.
Worldwide, the global eSports audience reached 385 million in 2017, with 191 million regular viewers.
(cf. https://newzoo.com/insights/trend-reports/global-esports-market-report-2017-light/)
North America continues to be the largest eSports market with revenues of US-$257 million. There is also continual development of eSports in Germany, however. The professional soccer teams of VfL Wolfsburg and FC Schalke 04 have their own eSports teams (http://www.gameswirtschaft.de/sport/esports-fussball-bundesliga/), and the German eSports Federation Deutschland has recently been founded, with the Federal Association of Interactive Entertainment Software (BIU) as a founding member (http://www.horizont.net/marketing/nachrichten/ESBD-E-Sport-Bund-Deutschland-geht-an-den-Start-162957).
In areas where such a lot of money can be made, legal obstacles are never far away. Here, they comprise a wide range of all kinds of different topics.
The initial focus is on copyrights and ancillary copyrights. Soccer stadiums, buildings, and avatars may enjoy copyright protection just as much as the computer program on which the games are based. Another item of discussion is whether eAthletes are to be classified as “performing artists” in accordance with Section 73 German Copyright Act. In addition, the question arises as to who enjoys ancillary copyrights under Section 81 Copyright Act as organizer of eSports events and whether such organizers have the same domiciliary rights as the organizers of a regular sports event.
In terms of trademark and design law, it will have to be discussed to what extent products and brand images represent infringements of the Trademark Act and the Design Act. In the case of brands and trademarks in particular, the question will be to what extent they are design objects or indications of origin.
Finally, there will also be regulatory issues that need to be observed. In addition to the use of cheatbots and doping substances, the main focus will be on the protection of minors and the Interstate Broadcasting Treaty with its advertising restrictions.
In conclusion, one suggestion: keep an eye on the eSports movement! Companies that want to stay ahead of the curve, should deal with the aforementioned issues and all further questions in timely manner.
The author of this post is Ilja Czernik.
Influencer marketing is the trend in today’s world of advertising. Even though it is obvious that influencer marketing must observe the framework of applicable statutory provisions, the market has long been uncertain about how influencer posts are to be drafted in order to be legally compliant. The current decision of Celle Higher Regional Court (June 08, 2017 – Case 13 U 53/17) offers at least some clarity.
The judgment was issued in relation to an action for injunction by the German Association for Social Competition (Verband Sozialer Wettbewerb) against a German drugstore chain. A 20-year-old Instagram star with 1.3 million followers had advertised the drugstore chain in one of her posts. The post was only marked as advertisement at the bottom with the hashtag “#ad,” which additionally only came second in a list of six hashtags.
Celle Higher Regional Court adjudged that this type of marking was insufficient. The court requested that the commercial purpose of an Instagram post would have to be apparent at first sight. It did not consider use of the hashtag “#ad” in a “hashtag cloud” to be sufficient to mark the post as advertising.
The court left expressly open, however, whether the use of the hashtag “#ad” is generally suitable to mark advertising posts.
The state media authorities (Landesmedienanstalten) already reacted to the judgment, however, and revised their joint guide on advertising issues in social media. It now reads: “When marking a post as PROMOTION (Werbung) or ADVERTISING (Anzeige), you will be on the safe side – that much is certain. […] At the current time, we cannot recommend marking posts as #ad, #sponsored by, or #powered by.” In the future, Instagram itself intends to provide for more transparency on the platform by comprehensibly identifying advertising posts. It is currently testing the introduction of a branded content tool in Germany to make it easier for users to recognize posts as paid advertising.
Practical tip
Advertising posts in social media should always be marked as “promotion” or “advertising” at the beginning of the posts unless their commercial purpose arises directly from the circumstances. Advertisers are also advised to obligate influencers contractually to such legally compliant marking of posts, since the influencers’ behavior may be attributed to the company, as is clearly shown by the recent judgment of Celle Higher Regional Court against the drugstore chain.
The author of this post is Ilja Czernik.
Progetto Influencer Marketing
28 Maggio 2018
- Italia
- Contratti
- Media
Il tema degli influencer e del loro rapporto con la disciplina in materia di pubblicità è uno dei più interessanti degli ultimi anni, e a cui molti operatori del settore stanno dedicando energie e denaro.
In questo contributo torneremo a parlare dei problemi giuridici che l’influencer marketing rende necessario affrontare.
Molti sono i profili problematici che possono derivare dall’attività degli influencer, che sorgono in virtù di un principio fondamentale della pubblicità: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale.
Ebbene, si sa che gli influencer, data la fama di cui godono sui social network, Instagram fra tutti, spesso vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che ne hanno fatto richiesta. Lo schema appena descritto ben può essere considerato una vera e propria attività pubblicitaria, dal momento che si riscontra la presenza di un soggetto che, dietro pagamento, svolge un’attività di propaganda diretta a render noto un prodotto alla collettività. Tuttavia, questo schema, di solito, non è accompagnato da alcun cenno al fatto che l’attività svolta dagli influencer sia una vera e propria attività pubblicitaria: essi si limitano a pubblicare la foto e a descrivere, naturalmente in maniera positiva, il prodotto, come se fosse “un racconto privato nello stile di Instagram” (ingiunzione del Comitato di Controllo IAP n. 57/2018).
Ed è sicuramente partendo da queste riflessioni che, negli ultimi due mesi, si è assistito ad un vero e proprio giro di vite nello IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il Comitato di Controllo dello stesso IAP ha notificato a molti influencer, nonché alle imprese che producono i beni oggetto dell’attività in esame, delle ingiunzioni, dirette a inibire la pubblicazione di alcuni post di cui gli influencer stessi erano autori.
Elemento comune di tutte queste ingiunzioni è la censura di un comportamento diretto a mostrare un’attività squisitamente pubblicitaria come se fosse una scelta spontanea dell’influencer, il che comporta una situazione in cui, utilizzando le parole dell’ingiunzione n. 61/2018 del 14 giugno 2018, vi sono “comunicazioni che veicolano un contenuto eminentemente promozionale del prodotto e del brand in questione, che non risulta però sufficientemente esplicito e dunque immediatamente riconoscibile dal pubblico”.
Ed infatti, nelle ingiunzioni citate, ma anche in altre come ad esempio l’ingiunzione n. 51/2018, ciò che si contesta è la violazione dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, fonte del principio summenzionato per cui la comunicazione pubblicitaria deve essere sempre riconoscibile come tale e che prevede, inoltre, che “nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.
Gli interventi del Comitato di Controllo coinvolgono non solo gli influencer, ma anche le imprese, poiché esse, di fatto, beneficiano di un’attività che può essere considerata una forma di pubblicità occulta.
Ci sia permesso un rilievo. Si prenda ad esempio l’ingiunzione n. 50/2018, relativa a due post della blogger ed influencer Chiara Nasti, che la ritraevano con dei prodotti col marchio “Sunsilk”: dopo aver rilevato che i due post del profilo Instagram di Nasti violavano il summenzionato art. 7 del Codice di Autodisciplina, si fa menzione alla necessità irrinunciabile della “trasparenza delle comunicazioni”, che consenta una distinzione effettiva, e non solo formale, delle comunicazioni promozionali da ogni altro tipo di comunicazione.
Analizzando le linee-guida elaborate in materia dallo IAP, la c.d. “Digital Chart”, emerge che viene ritenuto sufficiente, ai fini della distinguibilità di una comunicazione pubblicitaria come tale, che un post su Instagram o su un altro social network presenti un tag con su scritto #advertising, o addirittura solamente #ad.
Sotto questo profilo, le linee guida dello IAP potrebbero lasciare un po’ perplessi. Pur riconoscendo che la scelta in esame è un tentativo di mediare tra l’esigenza di tutelare il consumatore e le caratteristiche proprie dell’attività di influencer, è lecito dubitare che il tag #ad, apposto ad una fotografia su un social network, sia di per sé idoneo a rendere evidente, all’utente e al consumatore medio, che il post che si sta guardando integra un messaggio pubblicitario. Infatti, si può presumere che siano molti gli utenti che non sanno che il termine “ad” sia l’abbreviazione di “advertising”, tanto più se si tiene conto che spesso l’utenza media degli influencer è rappresentata da giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il tag #ad, in poche parole, riuscirebbe a “mascherare” l’attività pubblicitaria.
D’altro canto, a queste conclusioni sono giunti anche l’italiana Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e alcuni giudici tedeschi (e l’ordinamento tedesco è noto per essere particolarmente attento al diritto delle nuove tecnologie). Si guardi in tal senso al Caso 13 U 53/17, deciso dalla Celle Higher Regional Court, in cui si è fatto proprio riferimento al tag #ad, giungendo a delle conclusioni analoghe a quelle summenzionate.
È bene poi rilevare che, fino a questo momento, si è fatto riferimento al Codice di Autodisciplina, un testo normativo emanato dallo IAP, le cui ingiunzioni o decisioni vincolano solo le imprese aderenti al suo sistema autodisciplinare.
È chiaro, tuttavia, che sia applicabile , in fattispecie come quelle sopradescritte, una normativa statuale italiana, ossia il c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).
La pubblicità occulta integra anche una violazione del divieto di pratiche commerciali ingannevoli e scorrette, stabilito in diverse disposizioni di cui al Codice del Consumo, per l’appunto.
Le conseguenze non sono da poco, dal momento che il suddetto Codice e i Regolamenti Attuativi prevedono l’intervento dell’AGCM o dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM), entrambe dotate di poteri sanzionatori nei confronti di qualsiasi soggetto (con particolare riferimento al profilo pecuniario).
Quel che emerge da questa breve disamina è che il fenomeno, cui essa è dedicata, è particolarmente interessante e diffuso in tutto il mondo. Per questa ragione, ciò che viene auspicato è un confronto sull’argomento con i colleghi di Legamondo, ai quali chiediamo di raccontarci cosa accade nei loro Paesi o di mettersi in contatto con noi.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.
Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.
Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).
Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.
Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.
È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.
Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?
La risposta sarebbe semplicissima.
Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.
In Italia, in assenza di una normativa che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.
Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: “Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con …brand” o “in partnership with …brand” e/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.
L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.
Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.
E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad” non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.
Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.
La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.
Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.
Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
La legge sul diritto d’autore in Italia (L. 633/1941) e le legislazioni di moltissimi paesi europei non garantiscono protezione alle creazioni pubblicitarie e alle relative campagne.
Gli articoli 1 e 2 della legge sul diritto d’autore elencano diverse opere dell’ingegno protette ma non includono i claim e le creazioni pubblicitarie. Dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che le ideazioni pubblicitarie non siano ricomprese in tale elenco, neppure interpretandolo estensivamente.
A tale carenza supplisce, o dovrebbe supplire, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, (di seguito “Il Codice”).
L’art. 13 del Codice dispone quanto segue:
“Art. 13 – Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto.”
Sulla base dei principi che si desumono dalla giurisprudenza autodisciplinare, che si è trovata spesso a dover applicare l’art. 13 del Codice, emerge che i requisiti per l’ottenimento di una tutela ai sensi dell’art. 13 sono due: novità e originalità della comunicazione pubblicitaria.
È nuova un’idea che non sia stata in precedenza utilizzata da altri o, se è stata utilizzata, non sia più nella memoria dei consumatori.
È originale l’idea che sia il risultato di uno sforzo creativo apprezzabile.
Non sono originali e quindi non sono proteggibili le comunicazioni pubblicitarie che si avvalgono di stereotipi: ne è un esempio l’idea del confronto side-by-side su due piatti per mostrare l’efficacia di un detersivo.
Altro principio cardine consiste nel bilanciamento tra originalità e proteggibilità contro le imitazioni: tanto più una comunicazione è originale (e quindi non descrittiva del prodotto che intende pubblicizzare), tanto più sarà proteggibile nei confronti di comunicazioni simili.
L’art. 13 del Codice consente di proteggere sia il “cuore” di una campagna, ossia l’idea che ne costituisce l’essenza, sia la sola forma: ciò significa che se una campagna dotata di un “cuore” creativo diverso rispetto ad una campagna precedente di un soggetto terzo utilizza però i medesimi stilemi o un claim simile o identico, viene considerata illecita sulla base dell’art. 13 del Codice.
La giurisprudenza del Giurì negli anni ha affermato un principio fondamentale che ha costituito, per chi si occupa di diritto della pubblicità, un forte punto di riferimento: in presenza di un vero e proprio “calco” di una idea o di un claim altrui, specie se di un concorrente, il grado di originalità richiesto per potere accordare tutela alla prima ideazione pubblicitaria è praticamente nullo.
Anche un’idea o un claim banale potevano essere protetti sulla base dell’art. 13 del Codice qualora venissero copiati pedissequamente, specie se ciò accadeva per pubblicizzare prodotti della medesima categoria merceologica o idonei a soddisfare i medesimi bisogni.
Con la recentissima pronuncia n. 5/2018, il Giurì sembra avere modificato il proprio orientamento, con particolare riferimento al concetto di novità e di imitazione rilevante.
Il caso oggetto della decisione vedeva contrapposte due società concorrenti nel settore dell’ortofrutta: La Linea Verde (titolare del marchio Dimmidisì e produttrice dei prodotti contraddistinti da tale marchio) e Del Monte.
La Linea Verde ha iniziato ad utilizzare il claim “Tutti dicono di sì” all’inizio del 2017 in diverse campagne online e cartacee e in fiere di settore.
Alcuni mesi dopo (ottobre 2017) Del Monte ha utilizzato il claim “Tutti dicono sì” nell’ambito di proprie campagne pubblicitarie.
La Linea Verde ha quindi diffidato Del Monte a interrompere la propria campagna e, successivamente, ha depositato un’istanza al Giurì per la violazione dell’art. 13 del Codice.
In tale decisione, il Giurì dopo avere:
- accertato che i due claim “Tutti dicono di sì” e “Tutti dicono sì” sono comunicazionalmente identici, sia dal punto di vista formale (poiché il “di” è assolutamente irrilevante), sia dal punto di vista del contenuto, poiché entrambi i claim suggeriscono adesione e simpatia ai relativi prodotti;
- accertato l’anteriorità dell’uso del claim da parte di La Linea Verde, statuendo, tra le altre cose, che la divulgazione sul web e in una fiera di settore, anche se non sono comunicazioni censite dai motori di ricerca pubblicitari (come Easy way), sono adeguate a provare l’anteriorità di una comunicazione;
- accertato che il claim non era mai stato utilizzato in precedenza nel mercato di riferimento e neppure in altri mercati nel decennio precedente;
ha però affermato che lo slogan Del Monte deve considerarsi “logico sviluppo di una ideazione pubblicitaria che Del Monte, incontestabilmente, ha proposto da lungo tempo”, riferendosi alla nota pubblicità, “L’uomo Del Monte ha detto sì”, diffusa tra gli anni ’80 e ’90 e a quella meno nota “Sì al meglio, sì a Del Monte”.
Il Giurì ha in particolare affermato che, anche se si verifica una sovrapposizione formale tra i due claim, i due messaggi hanno una propria fisionomia che ne impedisce la loro sovrapposizione nella percezione del pubblico (ciò, a mio avviso contraddicendosi, dopo avere riconosciuto nella stessa decisione che i due claim suggeriscono il medesimo significato, ossia adesione e simpatia ai prodotti).
Pare quindi che la giurisprudenza del Giurì abbia operato una svolta importante in tema di imitazione e confondibilità dei claim (art. 13). E’ stato ritenuto lecito usare due claim (formalmente e ideologicamente) identici, ritenuti originali, sulla base di una continuità tra un’espressione specifica (“tutti dicono sì”) ed il percorso comunicativo (il “dire sì” di Del Monte).
Si tratta di un cambio di direzione del quale occorre prendere atto e che potrà, in futuro, creare grossi problemi ai creativi ed ai loro avvocati: non sarà sufficiente verificare se un claim o una idea pubblicitaria è già stata utilizzata da altri, ma bisognerà anche accertare che essa non possa costituire “un logico sviluppo” di una comunicazione, diversa, altrui. Giudizio, quest’ultimo, che si presenta dotato di una straordinaria soggettività, ai danni della certezza del diritto, principio cardine di ogni ordinamento giuridico.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
These days, influencer marketing is an indispensable part of virtually any marketing strategy. The attention gained through influencer marketing has recently been a subject of discussion among the competition associations as well.
As a forerunner, the Association of Social Competition seems prepared to take a closer look at the topic, as indicated by several media statements. According to its general manager Angelika Lange, the association has already issued warnings to several dozen influencers (https://www.wuv.de/marketing/die_influencer_jaeger ).
The association does not shy away from litigation, either. Following Celle Higher Regional Court’s decision on the external presentation of influencer advertising in June 2017, Hagen Regional Court (September 13, 2017 – Case 23 O 30/17) dealt not only with the external presentation but also with the content of an influencer’s statements.
Influencer Scarlett Gartmann is said to have advertised various products on her Instagram account without marking the content or individual sections as “advertising” (“Anzeige”) or “promotion” (“Werbung”). Hagen Regional Court, like Celle Higher Regional Court, considered this a violation of the marking obligations under competition law.
While this decision was to be expected, what is noteworthy is the component that deals with the content. The regional court obviously also had to decide on the use of the term detox by the influencer, which the Court considered a “health claim” in combination with the drink that was advertised by means of a photograph. Such a claim would not be permitted, however, which is why another prohibition claim against the influencer existed.
Practical tip
Particularly in areas that are sensitive to regulatory requirements, such as food law or medical device law, influencers and companies that are commissioning influencers should check in advance whether certain statements can actually be made as planned. Even though the external form can be preserved relatively easily by marking the text as “advertising” or “promotion,” there may be considerable and costly warning potential when the content of statements is examined, which the competition associations increasingly seem intent on exploiting.
The author of this post is Ilja Czernik.
The eSports sector is growing rapidly as illustrated by the following figures:
In 2017, the eSports economy grew to US-$696 million, a year-on-year growth of 41.3%.
Brands invested $517 million in 2017, which is expected to double by 2020.
Worldwide, the global eSports audience reached 385 million in 2017, with 191 million regular viewers.
(cf. https://newzoo.com/insights/trend-reports/global-esports-market-report-2017-light/)
North America continues to be the largest eSports market with revenues of US-$257 million. There is also continual development of eSports in Germany, however. The professional soccer teams of VfL Wolfsburg and FC Schalke 04 have their own eSports teams (http://www.gameswirtschaft.de/sport/esports-fussball-bundesliga/), and the German eSports Federation Deutschland has recently been founded, with the Federal Association of Interactive Entertainment Software (BIU) as a founding member (http://www.horizont.net/marketing/nachrichten/ESBD-E-Sport-Bund-Deutschland-geht-an-den-Start-162957).
In areas where such a lot of money can be made, legal obstacles are never far away. Here, they comprise a wide range of all kinds of different topics.
The initial focus is on copyrights and ancillary copyrights. Soccer stadiums, buildings, and avatars may enjoy copyright protection just as much as the computer program on which the games are based. Another item of discussion is whether eAthletes are to be classified as “performing artists” in accordance with Section 73 German Copyright Act. In addition, the question arises as to who enjoys ancillary copyrights under Section 81 Copyright Act as organizer of eSports events and whether such organizers have the same domiciliary rights as the organizers of a regular sports event.
In terms of trademark and design law, it will have to be discussed to what extent products and brand images represent infringements of the Trademark Act and the Design Act. In the case of brands and trademarks in particular, the question will be to what extent they are design objects or indications of origin.
Finally, there will also be regulatory issues that need to be observed. In addition to the use of cheatbots and doping substances, the main focus will be on the protection of minors and the Interstate Broadcasting Treaty with its advertising restrictions.
In conclusion, one suggestion: keep an eye on the eSports movement! Companies that want to stay ahead of the curve, should deal with the aforementioned issues and all further questions in timely manner.
The author of this post is Ilja Czernik.
Influencer marketing is the trend in today’s world of advertising. Even though it is obvious that influencer marketing must observe the framework of applicable statutory provisions, the market has long been uncertain about how influencer posts are to be drafted in order to be legally compliant. The current decision of Celle Higher Regional Court (June 08, 2017 – Case 13 U 53/17) offers at least some clarity.
The judgment was issued in relation to an action for injunction by the German Association for Social Competition (Verband Sozialer Wettbewerb) against a German drugstore chain. A 20-year-old Instagram star with 1.3 million followers had advertised the drugstore chain in one of her posts. The post was only marked as advertisement at the bottom with the hashtag “#ad,” which additionally only came second in a list of six hashtags.
Celle Higher Regional Court adjudged that this type of marking was insufficient. The court requested that the commercial purpose of an Instagram post would have to be apparent at first sight. It did not consider use of the hashtag “#ad” in a “hashtag cloud” to be sufficient to mark the post as advertising.
The court left expressly open, however, whether the use of the hashtag “#ad” is generally suitable to mark advertising posts.
The state media authorities (Landesmedienanstalten) already reacted to the judgment, however, and revised their joint guide on advertising issues in social media. It now reads: “When marking a post as PROMOTION (Werbung) or ADVERTISING (Anzeige), you will be on the safe side – that much is certain. […] At the current time, we cannot recommend marking posts as #ad, #sponsored by, or #powered by.” In the future, Instagram itself intends to provide for more transparency on the platform by comprehensibly identifying advertising posts. It is currently testing the introduction of a branded content tool in Germany to make it easier for users to recognize posts as paid advertising.
Practical tip
Advertising posts in social media should always be marked as “promotion” or “advertising” at the beginning of the posts unless their commercial purpose arises directly from the circumstances. Advertisers are also advised to obligate influencers contractually to such legally compliant marking of posts, since the influencers’ behavior may be attributed to the company, as is clearly shown by the recent judgment of Celle Higher Regional Court against the drugstore chain.
The author of this post is Ilja Czernik.
Il Giurì cambia rotta sulla protezione della creatività pubblicitaria
28 Febbraio 2018
- Italia
- Media
Il tema degli influencer e del loro rapporto con la disciplina in materia di pubblicità è uno dei più interessanti degli ultimi anni, e a cui molti operatori del settore stanno dedicando energie e denaro.
In questo contributo torneremo a parlare dei problemi giuridici che l’influencer marketing rende necessario affrontare.
Molti sono i profili problematici che possono derivare dall’attività degli influencer, che sorgono in virtù di un principio fondamentale della pubblicità: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale.
Ebbene, si sa che gli influencer, data la fama di cui godono sui social network, Instagram fra tutti, spesso vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che ne hanno fatto richiesta. Lo schema appena descritto ben può essere considerato una vera e propria attività pubblicitaria, dal momento che si riscontra la presenza di un soggetto che, dietro pagamento, svolge un’attività di propaganda diretta a render noto un prodotto alla collettività. Tuttavia, questo schema, di solito, non è accompagnato da alcun cenno al fatto che l’attività svolta dagli influencer sia una vera e propria attività pubblicitaria: essi si limitano a pubblicare la foto e a descrivere, naturalmente in maniera positiva, il prodotto, come se fosse “un racconto privato nello stile di Instagram” (ingiunzione del Comitato di Controllo IAP n. 57/2018).
Ed è sicuramente partendo da queste riflessioni che, negli ultimi due mesi, si è assistito ad un vero e proprio giro di vite nello IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il Comitato di Controllo dello stesso IAP ha notificato a molti influencer, nonché alle imprese che producono i beni oggetto dell’attività in esame, delle ingiunzioni, dirette a inibire la pubblicazione di alcuni post di cui gli influencer stessi erano autori.
Elemento comune di tutte queste ingiunzioni è la censura di un comportamento diretto a mostrare un’attività squisitamente pubblicitaria come se fosse una scelta spontanea dell’influencer, il che comporta una situazione in cui, utilizzando le parole dell’ingiunzione n. 61/2018 del 14 giugno 2018, vi sono “comunicazioni che veicolano un contenuto eminentemente promozionale del prodotto e del brand in questione, che non risulta però sufficientemente esplicito e dunque immediatamente riconoscibile dal pubblico”.
Ed infatti, nelle ingiunzioni citate, ma anche in altre come ad esempio l’ingiunzione n. 51/2018, ciò che si contesta è la violazione dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, fonte del principio summenzionato per cui la comunicazione pubblicitaria deve essere sempre riconoscibile come tale e che prevede, inoltre, che “nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.
Gli interventi del Comitato di Controllo coinvolgono non solo gli influencer, ma anche le imprese, poiché esse, di fatto, beneficiano di un’attività che può essere considerata una forma di pubblicità occulta.
Ci sia permesso un rilievo. Si prenda ad esempio l’ingiunzione n. 50/2018, relativa a due post della blogger ed influencer Chiara Nasti, che la ritraevano con dei prodotti col marchio “Sunsilk”: dopo aver rilevato che i due post del profilo Instagram di Nasti violavano il summenzionato art. 7 del Codice di Autodisciplina, si fa menzione alla necessità irrinunciabile della “trasparenza delle comunicazioni”, che consenta una distinzione effettiva, e non solo formale, delle comunicazioni promozionali da ogni altro tipo di comunicazione.
Analizzando le linee-guida elaborate in materia dallo IAP, la c.d. “Digital Chart”, emerge che viene ritenuto sufficiente, ai fini della distinguibilità di una comunicazione pubblicitaria come tale, che un post su Instagram o su un altro social network presenti un tag con su scritto #advertising, o addirittura solamente #ad.
Sotto questo profilo, le linee guida dello IAP potrebbero lasciare un po’ perplessi. Pur riconoscendo che la scelta in esame è un tentativo di mediare tra l’esigenza di tutelare il consumatore e le caratteristiche proprie dell’attività di influencer, è lecito dubitare che il tag #ad, apposto ad una fotografia su un social network, sia di per sé idoneo a rendere evidente, all’utente e al consumatore medio, che il post che si sta guardando integra un messaggio pubblicitario. Infatti, si può presumere che siano molti gli utenti che non sanno che il termine “ad” sia l’abbreviazione di “advertising”, tanto più se si tiene conto che spesso l’utenza media degli influencer è rappresentata da giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il tag #ad, in poche parole, riuscirebbe a “mascherare” l’attività pubblicitaria.
D’altro canto, a queste conclusioni sono giunti anche l’italiana Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e alcuni giudici tedeschi (e l’ordinamento tedesco è noto per essere particolarmente attento al diritto delle nuove tecnologie). Si guardi in tal senso al Caso 13 U 53/17, deciso dalla Celle Higher Regional Court, in cui si è fatto proprio riferimento al tag #ad, giungendo a delle conclusioni analoghe a quelle summenzionate.
È bene poi rilevare che, fino a questo momento, si è fatto riferimento al Codice di Autodisciplina, un testo normativo emanato dallo IAP, le cui ingiunzioni o decisioni vincolano solo le imprese aderenti al suo sistema autodisciplinare.
È chiaro, tuttavia, che sia applicabile , in fattispecie come quelle sopradescritte, una normativa statuale italiana, ossia il c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).
La pubblicità occulta integra anche una violazione del divieto di pratiche commerciali ingannevoli e scorrette, stabilito in diverse disposizioni di cui al Codice del Consumo, per l’appunto.
Le conseguenze non sono da poco, dal momento che il suddetto Codice e i Regolamenti Attuativi prevedono l’intervento dell’AGCM o dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM), entrambe dotate di poteri sanzionatori nei confronti di qualsiasi soggetto (con particolare riferimento al profilo pecuniario).
Quel che emerge da questa breve disamina è che il fenomeno, cui essa è dedicata, è particolarmente interessante e diffuso in tutto il mondo. Per questa ragione, ciò che viene auspicato è un confronto sull’argomento con i colleghi di Legamondo, ai quali chiediamo di raccontarci cosa accade nei loro Paesi o di mettersi in contatto con noi.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.
Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.
Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).
Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.
Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.
È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.
Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?
La risposta sarebbe semplicissima.
Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.
In Italia, in assenza di una normativa che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.
Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: “Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con …brand” o “in partnership with …brand” e/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.
L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.
Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.
E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad” non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.
Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.
La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.
Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.
Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
La legge sul diritto d’autore in Italia (L. 633/1941) e le legislazioni di moltissimi paesi europei non garantiscono protezione alle creazioni pubblicitarie e alle relative campagne.
Gli articoli 1 e 2 della legge sul diritto d’autore elencano diverse opere dell’ingegno protette ma non includono i claim e le creazioni pubblicitarie. Dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che le ideazioni pubblicitarie non siano ricomprese in tale elenco, neppure interpretandolo estensivamente.
A tale carenza supplisce, o dovrebbe supplire, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, (di seguito “Il Codice”).
L’art. 13 del Codice dispone quanto segue:
“Art. 13 – Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto.”
Sulla base dei principi che si desumono dalla giurisprudenza autodisciplinare, che si è trovata spesso a dover applicare l’art. 13 del Codice, emerge che i requisiti per l’ottenimento di una tutela ai sensi dell’art. 13 sono due: novità e originalità della comunicazione pubblicitaria.
È nuova un’idea che non sia stata in precedenza utilizzata da altri o, se è stata utilizzata, non sia più nella memoria dei consumatori.
È originale l’idea che sia il risultato di uno sforzo creativo apprezzabile.
Non sono originali e quindi non sono proteggibili le comunicazioni pubblicitarie che si avvalgono di stereotipi: ne è un esempio l’idea del confronto side-by-side su due piatti per mostrare l’efficacia di un detersivo.
Altro principio cardine consiste nel bilanciamento tra originalità e proteggibilità contro le imitazioni: tanto più una comunicazione è originale (e quindi non descrittiva del prodotto che intende pubblicizzare), tanto più sarà proteggibile nei confronti di comunicazioni simili.
L’art. 13 del Codice consente di proteggere sia il “cuore” di una campagna, ossia l’idea che ne costituisce l’essenza, sia la sola forma: ciò significa che se una campagna dotata di un “cuore” creativo diverso rispetto ad una campagna precedente di un soggetto terzo utilizza però i medesimi stilemi o un claim simile o identico, viene considerata illecita sulla base dell’art. 13 del Codice.
La giurisprudenza del Giurì negli anni ha affermato un principio fondamentale che ha costituito, per chi si occupa di diritto della pubblicità, un forte punto di riferimento: in presenza di un vero e proprio “calco” di una idea o di un claim altrui, specie se di un concorrente, il grado di originalità richiesto per potere accordare tutela alla prima ideazione pubblicitaria è praticamente nullo.
Anche un’idea o un claim banale potevano essere protetti sulla base dell’art. 13 del Codice qualora venissero copiati pedissequamente, specie se ciò accadeva per pubblicizzare prodotti della medesima categoria merceologica o idonei a soddisfare i medesimi bisogni.
Con la recentissima pronuncia n. 5/2018, il Giurì sembra avere modificato il proprio orientamento, con particolare riferimento al concetto di novità e di imitazione rilevante.
Il caso oggetto della decisione vedeva contrapposte due società concorrenti nel settore dell’ortofrutta: La Linea Verde (titolare del marchio Dimmidisì e produttrice dei prodotti contraddistinti da tale marchio) e Del Monte.
La Linea Verde ha iniziato ad utilizzare il claim “Tutti dicono di sì” all’inizio del 2017 in diverse campagne online e cartacee e in fiere di settore.
Alcuni mesi dopo (ottobre 2017) Del Monte ha utilizzato il claim “Tutti dicono sì” nell’ambito di proprie campagne pubblicitarie.
La Linea Verde ha quindi diffidato Del Monte a interrompere la propria campagna e, successivamente, ha depositato un’istanza al Giurì per la violazione dell’art. 13 del Codice.
In tale decisione, il Giurì dopo avere:
- accertato che i due claim “Tutti dicono di sì” e “Tutti dicono sì” sono comunicazionalmente identici, sia dal punto di vista formale (poiché il “di” è assolutamente irrilevante), sia dal punto di vista del contenuto, poiché entrambi i claim suggeriscono adesione e simpatia ai relativi prodotti;
- accertato l’anteriorità dell’uso del claim da parte di La Linea Verde, statuendo, tra le altre cose, che la divulgazione sul web e in una fiera di settore, anche se non sono comunicazioni censite dai motori di ricerca pubblicitari (come Easy way), sono adeguate a provare l’anteriorità di una comunicazione;
- accertato che il claim non era mai stato utilizzato in precedenza nel mercato di riferimento e neppure in altri mercati nel decennio precedente;
ha però affermato che lo slogan Del Monte deve considerarsi “logico sviluppo di una ideazione pubblicitaria che Del Monte, incontestabilmente, ha proposto da lungo tempo”, riferendosi alla nota pubblicità, “L’uomo Del Monte ha detto sì”, diffusa tra gli anni ’80 e ’90 e a quella meno nota “Sì al meglio, sì a Del Monte”.
Il Giurì ha in particolare affermato che, anche se si verifica una sovrapposizione formale tra i due claim, i due messaggi hanno una propria fisionomia che ne impedisce la loro sovrapposizione nella percezione del pubblico (ciò, a mio avviso contraddicendosi, dopo avere riconosciuto nella stessa decisione che i due claim suggeriscono il medesimo significato, ossia adesione e simpatia ai prodotti).
Pare quindi che la giurisprudenza del Giurì abbia operato una svolta importante in tema di imitazione e confondibilità dei claim (art. 13). E’ stato ritenuto lecito usare due claim (formalmente e ideologicamente) identici, ritenuti originali, sulla base di una continuità tra un’espressione specifica (“tutti dicono sì”) ed il percorso comunicativo (il “dire sì” di Del Monte).
Si tratta di un cambio di direzione del quale occorre prendere atto e che potrà, in futuro, creare grossi problemi ai creativi ed ai loro avvocati: non sarà sufficiente verificare se un claim o una idea pubblicitaria è già stata utilizzata da altri, ma bisognerà anche accertare che essa non possa costituire “un logico sviluppo” di una comunicazione, diversa, altrui. Giudizio, quest’ultimo, che si presenta dotato di una straordinaria soggettività, ai danni della certezza del diritto, principio cardine di ogni ordinamento giuridico.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
These days, influencer marketing is an indispensable part of virtually any marketing strategy. The attention gained through influencer marketing has recently been a subject of discussion among the competition associations as well.
As a forerunner, the Association of Social Competition seems prepared to take a closer look at the topic, as indicated by several media statements. According to its general manager Angelika Lange, the association has already issued warnings to several dozen influencers (https://www.wuv.de/marketing/die_influencer_jaeger ).
The association does not shy away from litigation, either. Following Celle Higher Regional Court’s decision on the external presentation of influencer advertising in June 2017, Hagen Regional Court (September 13, 2017 – Case 23 O 30/17) dealt not only with the external presentation but also with the content of an influencer’s statements.
Influencer Scarlett Gartmann is said to have advertised various products on her Instagram account without marking the content or individual sections as “advertising” (“Anzeige”) or “promotion” (“Werbung”). Hagen Regional Court, like Celle Higher Regional Court, considered this a violation of the marking obligations under competition law.
While this decision was to be expected, what is noteworthy is the component that deals with the content. The regional court obviously also had to decide on the use of the term detox by the influencer, which the Court considered a “health claim” in combination with the drink that was advertised by means of a photograph. Such a claim would not be permitted, however, which is why another prohibition claim against the influencer existed.
Practical tip
Particularly in areas that are sensitive to regulatory requirements, such as food law or medical device law, influencers and companies that are commissioning influencers should check in advance whether certain statements can actually be made as planned. Even though the external form can be preserved relatively easily by marking the text as “advertising” or “promotion,” there may be considerable and costly warning potential when the content of statements is examined, which the competition associations increasingly seem intent on exploiting.
The author of this post is Ilja Czernik.
The eSports sector is growing rapidly as illustrated by the following figures:
In 2017, the eSports economy grew to US-$696 million, a year-on-year growth of 41.3%.
Brands invested $517 million in 2017, which is expected to double by 2020.
Worldwide, the global eSports audience reached 385 million in 2017, with 191 million regular viewers.
(cf. https://newzoo.com/insights/trend-reports/global-esports-market-report-2017-light/)
North America continues to be the largest eSports market with revenues of US-$257 million. There is also continual development of eSports in Germany, however. The professional soccer teams of VfL Wolfsburg and FC Schalke 04 have their own eSports teams (http://www.gameswirtschaft.de/sport/esports-fussball-bundesliga/), and the German eSports Federation Deutschland has recently been founded, with the Federal Association of Interactive Entertainment Software (BIU) as a founding member (http://www.horizont.net/marketing/nachrichten/ESBD-E-Sport-Bund-Deutschland-geht-an-den-Start-162957).
In areas where such a lot of money can be made, legal obstacles are never far away. Here, they comprise a wide range of all kinds of different topics.
The initial focus is on copyrights and ancillary copyrights. Soccer stadiums, buildings, and avatars may enjoy copyright protection just as much as the computer program on which the games are based. Another item of discussion is whether eAthletes are to be classified as “performing artists” in accordance with Section 73 German Copyright Act. In addition, the question arises as to who enjoys ancillary copyrights under Section 81 Copyright Act as organizer of eSports events and whether such organizers have the same domiciliary rights as the organizers of a regular sports event.
In terms of trademark and design law, it will have to be discussed to what extent products and brand images represent infringements of the Trademark Act and the Design Act. In the case of brands and trademarks in particular, the question will be to what extent they are design objects or indications of origin.
Finally, there will also be regulatory issues that need to be observed. In addition to the use of cheatbots and doping substances, the main focus will be on the protection of minors and the Interstate Broadcasting Treaty with its advertising restrictions.
In conclusion, one suggestion: keep an eye on the eSports movement! Companies that want to stay ahead of the curve, should deal with the aforementioned issues and all further questions in timely manner.
The author of this post is Ilja Czernik.
Influencer marketing is the trend in today’s world of advertising. Even though it is obvious that influencer marketing must observe the framework of applicable statutory provisions, the market has long been uncertain about how influencer posts are to be drafted in order to be legally compliant. The current decision of Celle Higher Regional Court (June 08, 2017 – Case 13 U 53/17) offers at least some clarity.
The judgment was issued in relation to an action for injunction by the German Association for Social Competition (Verband Sozialer Wettbewerb) against a German drugstore chain. A 20-year-old Instagram star with 1.3 million followers had advertised the drugstore chain in one of her posts. The post was only marked as advertisement at the bottom with the hashtag “#ad,” which additionally only came second in a list of six hashtags.
Celle Higher Regional Court adjudged that this type of marking was insufficient. The court requested that the commercial purpose of an Instagram post would have to be apparent at first sight. It did not consider use of the hashtag “#ad” in a “hashtag cloud” to be sufficient to mark the post as advertising.
The court left expressly open, however, whether the use of the hashtag “#ad” is generally suitable to mark advertising posts.
The state media authorities (Landesmedienanstalten) already reacted to the judgment, however, and revised their joint guide on advertising issues in social media. It now reads: “When marking a post as PROMOTION (Werbung) or ADVERTISING (Anzeige), you will be on the safe side – that much is certain. […] At the current time, we cannot recommend marking posts as #ad, #sponsored by, or #powered by.” In the future, Instagram itself intends to provide for more transparency on the platform by comprehensibly identifying advertising posts. It is currently testing the introduction of a branded content tool in Germany to make it easier for users to recognize posts as paid advertising.
Practical tip
Advertising posts in social media should always be marked as “promotion” or “advertising” at the beginning of the posts unless their commercial purpose arises directly from the circumstances. Advertisers are also advised to obligate influencers contractually to such legally compliant marking of posts, since the influencers’ behavior may be attributed to the company, as is clearly shown by the recent judgment of Celle Higher Regional Court against the drugstore chain.
The author of this post is Ilja Czernik.
Germany – #InfluencerMarketing: Influencers are also liable for advertising content
21 Dicembre 2017
- Germania
- Media
Il tema degli influencer e del loro rapporto con la disciplina in materia di pubblicità è uno dei più interessanti degli ultimi anni, e a cui molti operatori del settore stanno dedicando energie e denaro.
In questo contributo torneremo a parlare dei problemi giuridici che l’influencer marketing rende necessario affrontare.
Molti sono i profili problematici che possono derivare dall’attività degli influencer, che sorgono in virtù di un principio fondamentale della pubblicità: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale.
Ebbene, si sa che gli influencer, data la fama di cui godono sui social network, Instagram fra tutti, spesso vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che ne hanno fatto richiesta. Lo schema appena descritto ben può essere considerato una vera e propria attività pubblicitaria, dal momento che si riscontra la presenza di un soggetto che, dietro pagamento, svolge un’attività di propaganda diretta a render noto un prodotto alla collettività. Tuttavia, questo schema, di solito, non è accompagnato da alcun cenno al fatto che l’attività svolta dagli influencer sia una vera e propria attività pubblicitaria: essi si limitano a pubblicare la foto e a descrivere, naturalmente in maniera positiva, il prodotto, come se fosse “un racconto privato nello stile di Instagram” (ingiunzione del Comitato di Controllo IAP n. 57/2018).
Ed è sicuramente partendo da queste riflessioni che, negli ultimi due mesi, si è assistito ad un vero e proprio giro di vite nello IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il Comitato di Controllo dello stesso IAP ha notificato a molti influencer, nonché alle imprese che producono i beni oggetto dell’attività in esame, delle ingiunzioni, dirette a inibire la pubblicazione di alcuni post di cui gli influencer stessi erano autori.
Elemento comune di tutte queste ingiunzioni è la censura di un comportamento diretto a mostrare un’attività squisitamente pubblicitaria come se fosse una scelta spontanea dell’influencer, il che comporta una situazione in cui, utilizzando le parole dell’ingiunzione n. 61/2018 del 14 giugno 2018, vi sono “comunicazioni che veicolano un contenuto eminentemente promozionale del prodotto e del brand in questione, che non risulta però sufficientemente esplicito e dunque immediatamente riconoscibile dal pubblico”.
Ed infatti, nelle ingiunzioni citate, ma anche in altre come ad esempio l’ingiunzione n. 51/2018, ciò che si contesta è la violazione dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, fonte del principio summenzionato per cui la comunicazione pubblicitaria deve essere sempre riconoscibile come tale e che prevede, inoltre, che “nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.
Gli interventi del Comitato di Controllo coinvolgono non solo gli influencer, ma anche le imprese, poiché esse, di fatto, beneficiano di un’attività che può essere considerata una forma di pubblicità occulta.
Ci sia permesso un rilievo. Si prenda ad esempio l’ingiunzione n. 50/2018, relativa a due post della blogger ed influencer Chiara Nasti, che la ritraevano con dei prodotti col marchio “Sunsilk”: dopo aver rilevato che i due post del profilo Instagram di Nasti violavano il summenzionato art. 7 del Codice di Autodisciplina, si fa menzione alla necessità irrinunciabile della “trasparenza delle comunicazioni”, che consenta una distinzione effettiva, e non solo formale, delle comunicazioni promozionali da ogni altro tipo di comunicazione.
Analizzando le linee-guida elaborate in materia dallo IAP, la c.d. “Digital Chart”, emerge che viene ritenuto sufficiente, ai fini della distinguibilità di una comunicazione pubblicitaria come tale, che un post su Instagram o su un altro social network presenti un tag con su scritto #advertising, o addirittura solamente #ad.
Sotto questo profilo, le linee guida dello IAP potrebbero lasciare un po’ perplessi. Pur riconoscendo che la scelta in esame è un tentativo di mediare tra l’esigenza di tutelare il consumatore e le caratteristiche proprie dell’attività di influencer, è lecito dubitare che il tag #ad, apposto ad una fotografia su un social network, sia di per sé idoneo a rendere evidente, all’utente e al consumatore medio, che il post che si sta guardando integra un messaggio pubblicitario. Infatti, si può presumere che siano molti gli utenti che non sanno che il termine “ad” sia l’abbreviazione di “advertising”, tanto più se si tiene conto che spesso l’utenza media degli influencer è rappresentata da giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il tag #ad, in poche parole, riuscirebbe a “mascherare” l’attività pubblicitaria.
D’altro canto, a queste conclusioni sono giunti anche l’italiana Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e alcuni giudici tedeschi (e l’ordinamento tedesco è noto per essere particolarmente attento al diritto delle nuove tecnologie). Si guardi in tal senso al Caso 13 U 53/17, deciso dalla Celle Higher Regional Court, in cui si è fatto proprio riferimento al tag #ad, giungendo a delle conclusioni analoghe a quelle summenzionate.
È bene poi rilevare che, fino a questo momento, si è fatto riferimento al Codice di Autodisciplina, un testo normativo emanato dallo IAP, le cui ingiunzioni o decisioni vincolano solo le imprese aderenti al suo sistema autodisciplinare.
È chiaro, tuttavia, che sia applicabile , in fattispecie come quelle sopradescritte, una normativa statuale italiana, ossia il c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).
La pubblicità occulta integra anche una violazione del divieto di pratiche commerciali ingannevoli e scorrette, stabilito in diverse disposizioni di cui al Codice del Consumo, per l’appunto.
Le conseguenze non sono da poco, dal momento che il suddetto Codice e i Regolamenti Attuativi prevedono l’intervento dell’AGCM o dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM), entrambe dotate di poteri sanzionatori nei confronti di qualsiasi soggetto (con particolare riferimento al profilo pecuniario).
Quel che emerge da questa breve disamina è che il fenomeno, cui essa è dedicata, è particolarmente interessante e diffuso in tutto il mondo. Per questa ragione, ciò che viene auspicato è un confronto sull’argomento con i colleghi di Legamondo, ai quali chiediamo di raccontarci cosa accade nei loro Paesi o di mettersi in contatto con noi.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.
Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.
Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).
Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.
Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.
È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.
Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?
La risposta sarebbe semplicissima.
Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.
In Italia, in assenza di una normativa che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.
Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: “Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con …brand” o “in partnership with …brand” e/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.
L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.
Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.
E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad” non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.
Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.
La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.
Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.
Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
La legge sul diritto d’autore in Italia (L. 633/1941) e le legislazioni di moltissimi paesi europei non garantiscono protezione alle creazioni pubblicitarie e alle relative campagne.
Gli articoli 1 e 2 della legge sul diritto d’autore elencano diverse opere dell’ingegno protette ma non includono i claim e le creazioni pubblicitarie. Dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che le ideazioni pubblicitarie non siano ricomprese in tale elenco, neppure interpretandolo estensivamente.
A tale carenza supplisce, o dovrebbe supplire, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, (di seguito “Il Codice”).
L’art. 13 del Codice dispone quanto segue:
“Art. 13 – Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto.”
Sulla base dei principi che si desumono dalla giurisprudenza autodisciplinare, che si è trovata spesso a dover applicare l’art. 13 del Codice, emerge che i requisiti per l’ottenimento di una tutela ai sensi dell’art. 13 sono due: novità e originalità della comunicazione pubblicitaria.
È nuova un’idea che non sia stata in precedenza utilizzata da altri o, se è stata utilizzata, non sia più nella memoria dei consumatori.
È originale l’idea che sia il risultato di uno sforzo creativo apprezzabile.
Non sono originali e quindi non sono proteggibili le comunicazioni pubblicitarie che si avvalgono di stereotipi: ne è un esempio l’idea del confronto side-by-side su due piatti per mostrare l’efficacia di un detersivo.
Altro principio cardine consiste nel bilanciamento tra originalità e proteggibilità contro le imitazioni: tanto più una comunicazione è originale (e quindi non descrittiva del prodotto che intende pubblicizzare), tanto più sarà proteggibile nei confronti di comunicazioni simili.
L’art. 13 del Codice consente di proteggere sia il “cuore” di una campagna, ossia l’idea che ne costituisce l’essenza, sia la sola forma: ciò significa che se una campagna dotata di un “cuore” creativo diverso rispetto ad una campagna precedente di un soggetto terzo utilizza però i medesimi stilemi o un claim simile o identico, viene considerata illecita sulla base dell’art. 13 del Codice.
La giurisprudenza del Giurì negli anni ha affermato un principio fondamentale che ha costituito, per chi si occupa di diritto della pubblicità, un forte punto di riferimento: in presenza di un vero e proprio “calco” di una idea o di un claim altrui, specie se di un concorrente, il grado di originalità richiesto per potere accordare tutela alla prima ideazione pubblicitaria è praticamente nullo.
Anche un’idea o un claim banale potevano essere protetti sulla base dell’art. 13 del Codice qualora venissero copiati pedissequamente, specie se ciò accadeva per pubblicizzare prodotti della medesima categoria merceologica o idonei a soddisfare i medesimi bisogni.
Con la recentissima pronuncia n. 5/2018, il Giurì sembra avere modificato il proprio orientamento, con particolare riferimento al concetto di novità e di imitazione rilevante.
Il caso oggetto della decisione vedeva contrapposte due società concorrenti nel settore dell’ortofrutta: La Linea Verde (titolare del marchio Dimmidisì e produttrice dei prodotti contraddistinti da tale marchio) e Del Monte.
La Linea Verde ha iniziato ad utilizzare il claim “Tutti dicono di sì” all’inizio del 2017 in diverse campagne online e cartacee e in fiere di settore.
Alcuni mesi dopo (ottobre 2017) Del Monte ha utilizzato il claim “Tutti dicono sì” nell’ambito di proprie campagne pubblicitarie.
La Linea Verde ha quindi diffidato Del Monte a interrompere la propria campagna e, successivamente, ha depositato un’istanza al Giurì per la violazione dell’art. 13 del Codice.
In tale decisione, il Giurì dopo avere:
- accertato che i due claim “Tutti dicono di sì” e “Tutti dicono sì” sono comunicazionalmente identici, sia dal punto di vista formale (poiché il “di” è assolutamente irrilevante), sia dal punto di vista del contenuto, poiché entrambi i claim suggeriscono adesione e simpatia ai relativi prodotti;
- accertato l’anteriorità dell’uso del claim da parte di La Linea Verde, statuendo, tra le altre cose, che la divulgazione sul web e in una fiera di settore, anche se non sono comunicazioni censite dai motori di ricerca pubblicitari (come Easy way), sono adeguate a provare l’anteriorità di una comunicazione;
- accertato che il claim non era mai stato utilizzato in precedenza nel mercato di riferimento e neppure in altri mercati nel decennio precedente;
ha però affermato che lo slogan Del Monte deve considerarsi “logico sviluppo di una ideazione pubblicitaria che Del Monte, incontestabilmente, ha proposto da lungo tempo”, riferendosi alla nota pubblicità, “L’uomo Del Monte ha detto sì”, diffusa tra gli anni ’80 e ’90 e a quella meno nota “Sì al meglio, sì a Del Monte”.
Il Giurì ha in particolare affermato che, anche se si verifica una sovrapposizione formale tra i due claim, i due messaggi hanno una propria fisionomia che ne impedisce la loro sovrapposizione nella percezione del pubblico (ciò, a mio avviso contraddicendosi, dopo avere riconosciuto nella stessa decisione che i due claim suggeriscono il medesimo significato, ossia adesione e simpatia ai prodotti).
Pare quindi che la giurisprudenza del Giurì abbia operato una svolta importante in tema di imitazione e confondibilità dei claim (art. 13). E’ stato ritenuto lecito usare due claim (formalmente e ideologicamente) identici, ritenuti originali, sulla base di una continuità tra un’espressione specifica (“tutti dicono sì”) ed il percorso comunicativo (il “dire sì” di Del Monte).
Si tratta di un cambio di direzione del quale occorre prendere atto e che potrà, in futuro, creare grossi problemi ai creativi ed ai loro avvocati: non sarà sufficiente verificare se un claim o una idea pubblicitaria è già stata utilizzata da altri, ma bisognerà anche accertare che essa non possa costituire “un logico sviluppo” di una comunicazione, diversa, altrui. Giudizio, quest’ultimo, che si presenta dotato di una straordinaria soggettività, ai danni della certezza del diritto, principio cardine di ogni ordinamento giuridico.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
These days, influencer marketing is an indispensable part of virtually any marketing strategy. The attention gained through influencer marketing has recently been a subject of discussion among the competition associations as well.
As a forerunner, the Association of Social Competition seems prepared to take a closer look at the topic, as indicated by several media statements. According to its general manager Angelika Lange, the association has already issued warnings to several dozen influencers (https://www.wuv.de/marketing/die_influencer_jaeger ).
The association does not shy away from litigation, either. Following Celle Higher Regional Court’s decision on the external presentation of influencer advertising in June 2017, Hagen Regional Court (September 13, 2017 – Case 23 O 30/17) dealt not only with the external presentation but also with the content of an influencer’s statements.
Influencer Scarlett Gartmann is said to have advertised various products on her Instagram account without marking the content or individual sections as “advertising” (“Anzeige”) or “promotion” (“Werbung”). Hagen Regional Court, like Celle Higher Regional Court, considered this a violation of the marking obligations under competition law.
While this decision was to be expected, what is noteworthy is the component that deals with the content. The regional court obviously also had to decide on the use of the term detox by the influencer, which the Court considered a “health claim” in combination with the drink that was advertised by means of a photograph. Such a claim would not be permitted, however, which is why another prohibition claim against the influencer existed.
Practical tip
Particularly in areas that are sensitive to regulatory requirements, such as food law or medical device law, influencers and companies that are commissioning influencers should check in advance whether certain statements can actually be made as planned. Even though the external form can be preserved relatively easily by marking the text as “advertising” or “promotion,” there may be considerable and costly warning potential when the content of statements is examined, which the competition associations increasingly seem intent on exploiting.
The author of this post is Ilja Czernik.
The eSports sector is growing rapidly as illustrated by the following figures:
In 2017, the eSports economy grew to US-$696 million, a year-on-year growth of 41.3%.
Brands invested $517 million in 2017, which is expected to double by 2020.
Worldwide, the global eSports audience reached 385 million in 2017, with 191 million regular viewers.
(cf. https://newzoo.com/insights/trend-reports/global-esports-market-report-2017-light/)
North America continues to be the largest eSports market with revenues of US-$257 million. There is also continual development of eSports in Germany, however. The professional soccer teams of VfL Wolfsburg and FC Schalke 04 have their own eSports teams (http://www.gameswirtschaft.de/sport/esports-fussball-bundesliga/), and the German eSports Federation Deutschland has recently been founded, with the Federal Association of Interactive Entertainment Software (BIU) as a founding member (http://www.horizont.net/marketing/nachrichten/ESBD-E-Sport-Bund-Deutschland-geht-an-den-Start-162957).
In areas where such a lot of money can be made, legal obstacles are never far away. Here, they comprise a wide range of all kinds of different topics.
The initial focus is on copyrights and ancillary copyrights. Soccer stadiums, buildings, and avatars may enjoy copyright protection just as much as the computer program on which the games are based. Another item of discussion is whether eAthletes are to be classified as “performing artists” in accordance with Section 73 German Copyright Act. In addition, the question arises as to who enjoys ancillary copyrights under Section 81 Copyright Act as organizer of eSports events and whether such organizers have the same domiciliary rights as the organizers of a regular sports event.
In terms of trademark and design law, it will have to be discussed to what extent products and brand images represent infringements of the Trademark Act and the Design Act. In the case of brands and trademarks in particular, the question will be to what extent they are design objects or indications of origin.
Finally, there will also be regulatory issues that need to be observed. In addition to the use of cheatbots and doping substances, the main focus will be on the protection of minors and the Interstate Broadcasting Treaty with its advertising restrictions.
In conclusion, one suggestion: keep an eye on the eSports movement! Companies that want to stay ahead of the curve, should deal with the aforementioned issues and all further questions in timely manner.
The author of this post is Ilja Czernik.
Influencer marketing is the trend in today’s world of advertising. Even though it is obvious that influencer marketing must observe the framework of applicable statutory provisions, the market has long been uncertain about how influencer posts are to be drafted in order to be legally compliant. The current decision of Celle Higher Regional Court (June 08, 2017 – Case 13 U 53/17) offers at least some clarity.
The judgment was issued in relation to an action for injunction by the German Association for Social Competition (Verband Sozialer Wettbewerb) against a German drugstore chain. A 20-year-old Instagram star with 1.3 million followers had advertised the drugstore chain in one of her posts. The post was only marked as advertisement at the bottom with the hashtag “#ad,” which additionally only came second in a list of six hashtags.
Celle Higher Regional Court adjudged that this type of marking was insufficient. The court requested that the commercial purpose of an Instagram post would have to be apparent at first sight. It did not consider use of the hashtag “#ad” in a “hashtag cloud” to be sufficient to mark the post as advertising.
The court left expressly open, however, whether the use of the hashtag “#ad” is generally suitable to mark advertising posts.
The state media authorities (Landesmedienanstalten) already reacted to the judgment, however, and revised their joint guide on advertising issues in social media. It now reads: “When marking a post as PROMOTION (Werbung) or ADVERTISING (Anzeige), you will be on the safe side – that much is certain. […] At the current time, we cannot recommend marking posts as #ad, #sponsored by, or #powered by.” In the future, Instagram itself intends to provide for more transparency on the platform by comprehensibly identifying advertising posts. It is currently testing the introduction of a branded content tool in Germany to make it easier for users to recognize posts as paid advertising.
Practical tip
Advertising posts in social media should always be marked as “promotion” or “advertising” at the beginning of the posts unless their commercial purpose arises directly from the circumstances. Advertisers are also advised to obligate influencers contractually to such legally compliant marking of posts, since the influencers’ behavior may be attributed to the company, as is clearly shown by the recent judgment of Celle Higher Regional Court against the drugstore chain.
The author of this post is Ilja Czernik.
Germany – eSports gaining ever more significance
13 Dicembre 2017
- Germania
- USA
- Proprietà industriale e intellettuale
- Media
- Sport
Il tema degli influencer e del loro rapporto con la disciplina in materia di pubblicità è uno dei più interessanti degli ultimi anni, e a cui molti operatori del settore stanno dedicando energie e denaro.
In questo contributo torneremo a parlare dei problemi giuridici che l’influencer marketing rende necessario affrontare.
Molti sono i profili problematici che possono derivare dall’attività degli influencer, che sorgono in virtù di un principio fondamentale della pubblicità: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale.
Ebbene, si sa che gli influencer, data la fama di cui godono sui social network, Instagram fra tutti, spesso vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che ne hanno fatto richiesta. Lo schema appena descritto ben può essere considerato una vera e propria attività pubblicitaria, dal momento che si riscontra la presenza di un soggetto che, dietro pagamento, svolge un’attività di propaganda diretta a render noto un prodotto alla collettività. Tuttavia, questo schema, di solito, non è accompagnato da alcun cenno al fatto che l’attività svolta dagli influencer sia una vera e propria attività pubblicitaria: essi si limitano a pubblicare la foto e a descrivere, naturalmente in maniera positiva, il prodotto, come se fosse “un racconto privato nello stile di Instagram” (ingiunzione del Comitato di Controllo IAP n. 57/2018).
Ed è sicuramente partendo da queste riflessioni che, negli ultimi due mesi, si è assistito ad un vero e proprio giro di vite nello IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il Comitato di Controllo dello stesso IAP ha notificato a molti influencer, nonché alle imprese che producono i beni oggetto dell’attività in esame, delle ingiunzioni, dirette a inibire la pubblicazione di alcuni post di cui gli influencer stessi erano autori.
Elemento comune di tutte queste ingiunzioni è la censura di un comportamento diretto a mostrare un’attività squisitamente pubblicitaria come se fosse una scelta spontanea dell’influencer, il che comporta una situazione in cui, utilizzando le parole dell’ingiunzione n. 61/2018 del 14 giugno 2018, vi sono “comunicazioni che veicolano un contenuto eminentemente promozionale del prodotto e del brand in questione, che non risulta però sufficientemente esplicito e dunque immediatamente riconoscibile dal pubblico”.
Ed infatti, nelle ingiunzioni citate, ma anche in altre come ad esempio l’ingiunzione n. 51/2018, ciò che si contesta è la violazione dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, fonte del principio summenzionato per cui la comunicazione pubblicitaria deve essere sempre riconoscibile come tale e che prevede, inoltre, che “nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.
Gli interventi del Comitato di Controllo coinvolgono non solo gli influencer, ma anche le imprese, poiché esse, di fatto, beneficiano di un’attività che può essere considerata una forma di pubblicità occulta.
Ci sia permesso un rilievo. Si prenda ad esempio l’ingiunzione n. 50/2018, relativa a due post della blogger ed influencer Chiara Nasti, che la ritraevano con dei prodotti col marchio “Sunsilk”: dopo aver rilevato che i due post del profilo Instagram di Nasti violavano il summenzionato art. 7 del Codice di Autodisciplina, si fa menzione alla necessità irrinunciabile della “trasparenza delle comunicazioni”, che consenta una distinzione effettiva, e non solo formale, delle comunicazioni promozionali da ogni altro tipo di comunicazione.
Analizzando le linee-guida elaborate in materia dallo IAP, la c.d. “Digital Chart”, emerge che viene ritenuto sufficiente, ai fini della distinguibilità di una comunicazione pubblicitaria come tale, che un post su Instagram o su un altro social network presenti un tag con su scritto #advertising, o addirittura solamente #ad.
Sotto questo profilo, le linee guida dello IAP potrebbero lasciare un po’ perplessi. Pur riconoscendo che la scelta in esame è un tentativo di mediare tra l’esigenza di tutelare il consumatore e le caratteristiche proprie dell’attività di influencer, è lecito dubitare che il tag #ad, apposto ad una fotografia su un social network, sia di per sé idoneo a rendere evidente, all’utente e al consumatore medio, che il post che si sta guardando integra un messaggio pubblicitario. Infatti, si può presumere che siano molti gli utenti che non sanno che il termine “ad” sia l’abbreviazione di “advertising”, tanto più se si tiene conto che spesso l’utenza media degli influencer è rappresentata da giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il tag #ad, in poche parole, riuscirebbe a “mascherare” l’attività pubblicitaria.
D’altro canto, a queste conclusioni sono giunti anche l’italiana Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e alcuni giudici tedeschi (e l’ordinamento tedesco è noto per essere particolarmente attento al diritto delle nuove tecnologie). Si guardi in tal senso al Caso 13 U 53/17, deciso dalla Celle Higher Regional Court, in cui si è fatto proprio riferimento al tag #ad, giungendo a delle conclusioni analoghe a quelle summenzionate.
È bene poi rilevare che, fino a questo momento, si è fatto riferimento al Codice di Autodisciplina, un testo normativo emanato dallo IAP, le cui ingiunzioni o decisioni vincolano solo le imprese aderenti al suo sistema autodisciplinare.
È chiaro, tuttavia, che sia applicabile , in fattispecie come quelle sopradescritte, una normativa statuale italiana, ossia il c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).
La pubblicità occulta integra anche una violazione del divieto di pratiche commerciali ingannevoli e scorrette, stabilito in diverse disposizioni di cui al Codice del Consumo, per l’appunto.
Le conseguenze non sono da poco, dal momento che il suddetto Codice e i Regolamenti Attuativi prevedono l’intervento dell’AGCM o dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM), entrambe dotate di poteri sanzionatori nei confronti di qualsiasi soggetto (con particolare riferimento al profilo pecuniario).
Quel che emerge da questa breve disamina è che il fenomeno, cui essa è dedicata, è particolarmente interessante e diffuso in tutto il mondo. Per questa ragione, ciò che viene auspicato è un confronto sull’argomento con i colleghi di Legamondo, ai quali chiediamo di raccontarci cosa accade nei loro Paesi o di mettersi in contatto con noi.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.
Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.
Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).
Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.
Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.
È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.
Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?
La risposta sarebbe semplicissima.
Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.
In Italia, in assenza di una normativa che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.
Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: “Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con …brand” o “in partnership with …brand” e/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.
L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.
Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.
E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad” non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.
Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.
La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.
Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.
Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
La legge sul diritto d’autore in Italia (L. 633/1941) e le legislazioni di moltissimi paesi europei non garantiscono protezione alle creazioni pubblicitarie e alle relative campagne.
Gli articoli 1 e 2 della legge sul diritto d’autore elencano diverse opere dell’ingegno protette ma non includono i claim e le creazioni pubblicitarie. Dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che le ideazioni pubblicitarie non siano ricomprese in tale elenco, neppure interpretandolo estensivamente.
A tale carenza supplisce, o dovrebbe supplire, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, (di seguito “Il Codice”).
L’art. 13 del Codice dispone quanto segue:
“Art. 13 – Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto.”
Sulla base dei principi che si desumono dalla giurisprudenza autodisciplinare, che si è trovata spesso a dover applicare l’art. 13 del Codice, emerge che i requisiti per l’ottenimento di una tutela ai sensi dell’art. 13 sono due: novità e originalità della comunicazione pubblicitaria.
È nuova un’idea che non sia stata in precedenza utilizzata da altri o, se è stata utilizzata, non sia più nella memoria dei consumatori.
È originale l’idea che sia il risultato di uno sforzo creativo apprezzabile.
Non sono originali e quindi non sono proteggibili le comunicazioni pubblicitarie che si avvalgono di stereotipi: ne è un esempio l’idea del confronto side-by-side su due piatti per mostrare l’efficacia di un detersivo.
Altro principio cardine consiste nel bilanciamento tra originalità e proteggibilità contro le imitazioni: tanto più una comunicazione è originale (e quindi non descrittiva del prodotto che intende pubblicizzare), tanto più sarà proteggibile nei confronti di comunicazioni simili.
L’art. 13 del Codice consente di proteggere sia il “cuore” di una campagna, ossia l’idea che ne costituisce l’essenza, sia la sola forma: ciò significa che se una campagna dotata di un “cuore” creativo diverso rispetto ad una campagna precedente di un soggetto terzo utilizza però i medesimi stilemi o un claim simile o identico, viene considerata illecita sulla base dell’art. 13 del Codice.
La giurisprudenza del Giurì negli anni ha affermato un principio fondamentale che ha costituito, per chi si occupa di diritto della pubblicità, un forte punto di riferimento: in presenza di un vero e proprio “calco” di una idea o di un claim altrui, specie se di un concorrente, il grado di originalità richiesto per potere accordare tutela alla prima ideazione pubblicitaria è praticamente nullo.
Anche un’idea o un claim banale potevano essere protetti sulla base dell’art. 13 del Codice qualora venissero copiati pedissequamente, specie se ciò accadeva per pubblicizzare prodotti della medesima categoria merceologica o idonei a soddisfare i medesimi bisogni.
Con la recentissima pronuncia n. 5/2018, il Giurì sembra avere modificato il proprio orientamento, con particolare riferimento al concetto di novità e di imitazione rilevante.
Il caso oggetto della decisione vedeva contrapposte due società concorrenti nel settore dell’ortofrutta: La Linea Verde (titolare del marchio Dimmidisì e produttrice dei prodotti contraddistinti da tale marchio) e Del Monte.
La Linea Verde ha iniziato ad utilizzare il claim “Tutti dicono di sì” all’inizio del 2017 in diverse campagne online e cartacee e in fiere di settore.
Alcuni mesi dopo (ottobre 2017) Del Monte ha utilizzato il claim “Tutti dicono sì” nell’ambito di proprie campagne pubblicitarie.
La Linea Verde ha quindi diffidato Del Monte a interrompere la propria campagna e, successivamente, ha depositato un’istanza al Giurì per la violazione dell’art. 13 del Codice.
In tale decisione, il Giurì dopo avere:
- accertato che i due claim “Tutti dicono di sì” e “Tutti dicono sì” sono comunicazionalmente identici, sia dal punto di vista formale (poiché il “di” è assolutamente irrilevante), sia dal punto di vista del contenuto, poiché entrambi i claim suggeriscono adesione e simpatia ai relativi prodotti;
- accertato l’anteriorità dell’uso del claim da parte di La Linea Verde, statuendo, tra le altre cose, che la divulgazione sul web e in una fiera di settore, anche se non sono comunicazioni censite dai motori di ricerca pubblicitari (come Easy way), sono adeguate a provare l’anteriorità di una comunicazione;
- accertato che il claim non era mai stato utilizzato in precedenza nel mercato di riferimento e neppure in altri mercati nel decennio precedente;
ha però affermato che lo slogan Del Monte deve considerarsi “logico sviluppo di una ideazione pubblicitaria che Del Monte, incontestabilmente, ha proposto da lungo tempo”, riferendosi alla nota pubblicità, “L’uomo Del Monte ha detto sì”, diffusa tra gli anni ’80 e ’90 e a quella meno nota “Sì al meglio, sì a Del Monte”.
Il Giurì ha in particolare affermato che, anche se si verifica una sovrapposizione formale tra i due claim, i due messaggi hanno una propria fisionomia che ne impedisce la loro sovrapposizione nella percezione del pubblico (ciò, a mio avviso contraddicendosi, dopo avere riconosciuto nella stessa decisione che i due claim suggeriscono il medesimo significato, ossia adesione e simpatia ai prodotti).
Pare quindi che la giurisprudenza del Giurì abbia operato una svolta importante in tema di imitazione e confondibilità dei claim (art. 13). E’ stato ritenuto lecito usare due claim (formalmente e ideologicamente) identici, ritenuti originali, sulla base di una continuità tra un’espressione specifica (“tutti dicono sì”) ed il percorso comunicativo (il “dire sì” di Del Monte).
Si tratta di un cambio di direzione del quale occorre prendere atto e che potrà, in futuro, creare grossi problemi ai creativi ed ai loro avvocati: non sarà sufficiente verificare se un claim o una idea pubblicitaria è già stata utilizzata da altri, ma bisognerà anche accertare che essa non possa costituire “un logico sviluppo” di una comunicazione, diversa, altrui. Giudizio, quest’ultimo, che si presenta dotato di una straordinaria soggettività, ai danni della certezza del diritto, principio cardine di ogni ordinamento giuridico.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
These days, influencer marketing is an indispensable part of virtually any marketing strategy. The attention gained through influencer marketing has recently been a subject of discussion among the competition associations as well.
As a forerunner, the Association of Social Competition seems prepared to take a closer look at the topic, as indicated by several media statements. According to its general manager Angelika Lange, the association has already issued warnings to several dozen influencers (https://www.wuv.de/marketing/die_influencer_jaeger ).
The association does not shy away from litigation, either. Following Celle Higher Regional Court’s decision on the external presentation of influencer advertising in June 2017, Hagen Regional Court (September 13, 2017 – Case 23 O 30/17) dealt not only with the external presentation but also with the content of an influencer’s statements.
Influencer Scarlett Gartmann is said to have advertised various products on her Instagram account without marking the content or individual sections as “advertising” (“Anzeige”) or “promotion” (“Werbung”). Hagen Regional Court, like Celle Higher Regional Court, considered this a violation of the marking obligations under competition law.
While this decision was to be expected, what is noteworthy is the component that deals with the content. The regional court obviously also had to decide on the use of the term detox by the influencer, which the Court considered a “health claim” in combination with the drink that was advertised by means of a photograph. Such a claim would not be permitted, however, which is why another prohibition claim against the influencer existed.
Practical tip
Particularly in areas that are sensitive to regulatory requirements, such as food law or medical device law, influencers and companies that are commissioning influencers should check in advance whether certain statements can actually be made as planned. Even though the external form can be preserved relatively easily by marking the text as “advertising” or “promotion,” there may be considerable and costly warning potential when the content of statements is examined, which the competition associations increasingly seem intent on exploiting.
The author of this post is Ilja Czernik.
The eSports sector is growing rapidly as illustrated by the following figures:
In 2017, the eSports economy grew to US-$696 million, a year-on-year growth of 41.3%.
Brands invested $517 million in 2017, which is expected to double by 2020.
Worldwide, the global eSports audience reached 385 million in 2017, with 191 million regular viewers.
(cf. https://newzoo.com/insights/trend-reports/global-esports-market-report-2017-light/)
North America continues to be the largest eSports market with revenues of US-$257 million. There is also continual development of eSports in Germany, however. The professional soccer teams of VfL Wolfsburg and FC Schalke 04 have their own eSports teams (http://www.gameswirtschaft.de/sport/esports-fussball-bundesliga/), and the German eSports Federation Deutschland has recently been founded, with the Federal Association of Interactive Entertainment Software (BIU) as a founding member (http://www.horizont.net/marketing/nachrichten/ESBD-E-Sport-Bund-Deutschland-geht-an-den-Start-162957).
In areas where such a lot of money can be made, legal obstacles are never far away. Here, they comprise a wide range of all kinds of different topics.
The initial focus is on copyrights and ancillary copyrights. Soccer stadiums, buildings, and avatars may enjoy copyright protection just as much as the computer program on which the games are based. Another item of discussion is whether eAthletes are to be classified as “performing artists” in accordance with Section 73 German Copyright Act. In addition, the question arises as to who enjoys ancillary copyrights under Section 81 Copyright Act as organizer of eSports events and whether such organizers have the same domiciliary rights as the organizers of a regular sports event.
In terms of trademark and design law, it will have to be discussed to what extent products and brand images represent infringements of the Trademark Act and the Design Act. In the case of brands and trademarks in particular, the question will be to what extent they are design objects or indications of origin.
Finally, there will also be regulatory issues that need to be observed. In addition to the use of cheatbots and doping substances, the main focus will be on the protection of minors and the Interstate Broadcasting Treaty with its advertising restrictions.
In conclusion, one suggestion: keep an eye on the eSports movement! Companies that want to stay ahead of the curve, should deal with the aforementioned issues and all further questions in timely manner.
The author of this post is Ilja Czernik.
Influencer marketing is the trend in today’s world of advertising. Even though it is obvious that influencer marketing must observe the framework of applicable statutory provisions, the market has long been uncertain about how influencer posts are to be drafted in order to be legally compliant. The current decision of Celle Higher Regional Court (June 08, 2017 – Case 13 U 53/17) offers at least some clarity.
The judgment was issued in relation to an action for injunction by the German Association for Social Competition (Verband Sozialer Wettbewerb) against a German drugstore chain. A 20-year-old Instagram star with 1.3 million followers had advertised the drugstore chain in one of her posts. The post was only marked as advertisement at the bottom with the hashtag “#ad,” which additionally only came second in a list of six hashtags.
Celle Higher Regional Court adjudged that this type of marking was insufficient. The court requested that the commercial purpose of an Instagram post would have to be apparent at first sight. It did not consider use of the hashtag “#ad” in a “hashtag cloud” to be sufficient to mark the post as advertising.
The court left expressly open, however, whether the use of the hashtag “#ad” is generally suitable to mark advertising posts.
The state media authorities (Landesmedienanstalten) already reacted to the judgment, however, and revised their joint guide on advertising issues in social media. It now reads: “When marking a post as PROMOTION (Werbung) or ADVERTISING (Anzeige), you will be on the safe side – that much is certain. […] At the current time, we cannot recommend marking posts as #ad, #sponsored by, or #powered by.” In the future, Instagram itself intends to provide for more transparency on the platform by comprehensibly identifying advertising posts. It is currently testing the introduction of a branded content tool in Germany to make it easier for users to recognize posts as paid advertising.
Practical tip
Advertising posts in social media should always be marked as “promotion” or “advertising” at the beginning of the posts unless their commercial purpose arises directly from the circumstances. Advertisers are also advised to obligate influencers contractually to such legally compliant marking of posts, since the influencers’ behavior may be attributed to the company, as is clearly shown by the recent judgment of Celle Higher Regional Court against the drugstore chain.
The author of this post is Ilja Czernik.
Germany – Product Placement and Influencer Marketing
28 Novembre 2017
- Germania
- Contratti
- Media
- Marchi e brevetti
Il tema degli influencer e del loro rapporto con la disciplina in materia di pubblicità è uno dei più interessanti degli ultimi anni, e a cui molti operatori del settore stanno dedicando energie e denaro.
In questo contributo torneremo a parlare dei problemi giuridici che l’influencer marketing rende necessario affrontare.
Molti sono i profili problematici che possono derivare dall’attività degli influencer, che sorgono in virtù di un principio fondamentale della pubblicità: qualunque forma di comunicazione e/o informazione pubblicitaria deve chiaramente essere riconoscibile come tale.
Ebbene, si sa che gli influencer, data la fama di cui godono sui social network, Instagram fra tutti, spesso vengono pagati per pubblicare foto che li ritraggono insieme ai beni prodotti dalle imprese che ne hanno fatto richiesta. Lo schema appena descritto ben può essere considerato una vera e propria attività pubblicitaria, dal momento che si riscontra la presenza di un soggetto che, dietro pagamento, svolge un’attività di propaganda diretta a render noto un prodotto alla collettività. Tuttavia, questo schema, di solito, non è accompagnato da alcun cenno al fatto che l’attività svolta dagli influencer sia una vera e propria attività pubblicitaria: essi si limitano a pubblicare la foto e a descrivere, naturalmente in maniera positiva, il prodotto, come se fosse “un racconto privato nello stile di Instagram” (ingiunzione del Comitato di Controllo IAP n. 57/2018).
Ed è sicuramente partendo da queste riflessioni che, negli ultimi due mesi, si è assistito ad un vero e proprio giro di vite nello IAP, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria. Il Comitato di Controllo dello stesso IAP ha notificato a molti influencer, nonché alle imprese che producono i beni oggetto dell’attività in esame, delle ingiunzioni, dirette a inibire la pubblicazione di alcuni post di cui gli influencer stessi erano autori.
Elemento comune di tutte queste ingiunzioni è la censura di un comportamento diretto a mostrare un’attività squisitamente pubblicitaria come se fosse una scelta spontanea dell’influencer, il che comporta una situazione in cui, utilizzando le parole dell’ingiunzione n. 61/2018 del 14 giugno 2018, vi sono “comunicazioni che veicolano un contenuto eminentemente promozionale del prodotto e del brand in questione, che non risulta però sufficientemente esplicito e dunque immediatamente riconoscibile dal pubblico”.
Ed infatti, nelle ingiunzioni citate, ma anche in altre come ad esempio l’ingiunzione n. 51/2018, ciò che si contesta è la violazione dell’art. 7 del Codice di Autodisciplina pubblicitaria, fonte del principio summenzionato per cui la comunicazione pubblicitaria deve essere sempre riconoscibile come tale e che prevede, inoltre, che “nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti”.
Gli interventi del Comitato di Controllo coinvolgono non solo gli influencer, ma anche le imprese, poiché esse, di fatto, beneficiano di un’attività che può essere considerata una forma di pubblicità occulta.
Ci sia permesso un rilievo. Si prenda ad esempio l’ingiunzione n. 50/2018, relativa a due post della blogger ed influencer Chiara Nasti, che la ritraevano con dei prodotti col marchio “Sunsilk”: dopo aver rilevato che i due post del profilo Instagram di Nasti violavano il summenzionato art. 7 del Codice di Autodisciplina, si fa menzione alla necessità irrinunciabile della “trasparenza delle comunicazioni”, che consenta una distinzione effettiva, e non solo formale, delle comunicazioni promozionali da ogni altro tipo di comunicazione.
Analizzando le linee-guida elaborate in materia dallo IAP, la c.d. “Digital Chart”, emerge che viene ritenuto sufficiente, ai fini della distinguibilità di una comunicazione pubblicitaria come tale, che un post su Instagram o su un altro social network presenti un tag con su scritto #advertising, o addirittura solamente #ad.
Sotto questo profilo, le linee guida dello IAP potrebbero lasciare un po’ perplessi. Pur riconoscendo che la scelta in esame è un tentativo di mediare tra l’esigenza di tutelare il consumatore e le caratteristiche proprie dell’attività di influencer, è lecito dubitare che il tag #ad, apposto ad una fotografia su un social network, sia di per sé idoneo a rendere evidente, all’utente e al consumatore medio, che il post che si sta guardando integra un messaggio pubblicitario. Infatti, si può presumere che siano molti gli utenti che non sanno che il termine “ad” sia l’abbreviazione di “advertising”, tanto più se si tiene conto che spesso l’utenza media degli influencer è rappresentata da giovani di età compresa tra i 14 e i 18 anni. Il tag #ad, in poche parole, riuscirebbe a “mascherare” l’attività pubblicitaria.
D’altro canto, a queste conclusioni sono giunti anche l’italiana Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) e alcuni giudici tedeschi (e l’ordinamento tedesco è noto per essere particolarmente attento al diritto delle nuove tecnologie). Si guardi in tal senso al Caso 13 U 53/17, deciso dalla Celle Higher Regional Court, in cui si è fatto proprio riferimento al tag #ad, giungendo a delle conclusioni analoghe a quelle summenzionate.
È bene poi rilevare che, fino a questo momento, si è fatto riferimento al Codice di Autodisciplina, un testo normativo emanato dallo IAP, le cui ingiunzioni o decisioni vincolano solo le imprese aderenti al suo sistema autodisciplinare.
È chiaro, tuttavia, che sia applicabile , in fattispecie come quelle sopradescritte, una normativa statuale italiana, ossia il c.d. Codice del Consumo (d.lgs. 206/2005).
La pubblicità occulta integra anche una violazione del divieto di pratiche commerciali ingannevoli e scorrette, stabilito in diverse disposizioni di cui al Codice del Consumo, per l’appunto.
Le conseguenze non sono da poco, dal momento che il suddetto Codice e i Regolamenti Attuativi prevedono l’intervento dell’AGCM o dell’Autorità Garante per le Comunicazioni (AGCOM), entrambe dotate di poteri sanzionatori nei confronti di qualsiasi soggetto (con particolare riferimento al profilo pecuniario).
Quel che emerge da questa breve disamina è che il fenomeno, cui essa è dedicata, è particolarmente interessante e diffuso in tutto il mondo. Per questa ragione, ciò che viene auspicato è un confronto sull’argomento con i colleghi di Legamondo, ai quali chiediamo di raccontarci cosa accade nei loro Paesi o di mettersi in contatto con noi.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
Il tema, tra i giuristi e gli operatori del settore pubblicitario che si occupano di comunicazione commerciale, è assai noto.
Esiste un principio cardine del diritto della comunicazione: qualunque forma di comunicazione commerciale deve essere riconoscibile come tale.
Prima della diffusione della comunicazione digitale e con essa del proliferare del cosiddetto “Influencer Marketing”, il tema della riconoscibilità della comunicazione commerciale veniva affrontato, per lo più, quando si trattava di valutare se un contenuto pubblicitario fosse chiaramente distinguibile da un contenuto giornalistico o informativo (si tratta dell’annosa questione della pubblicità redazionale).
Per un breve periodo si discuteva anche della cosiddetta pubblicità subliminale, poi caduta nel dimenticatoio.
Oggi il tema con il quale ci si confronta/scontra ogni giorno è quello della necessità di evidenziare al consumatore se l’apprezzamento che un personaggio noto (un “Influencer”, appunto) dimostra di avere per un prodotto o un servizio sia genuino o tale non sia.
Non può considerarsi spontaneo quando un soggetto riceve un compenso per indossare un capo di moda, per usare uno smartphone, o anche semplicemente riceve in omaggio i prodotti che pubblicizza o altri aventi valore economico.
È chiaro ed è dimostrato che faccia maggiore presa sul pubblico la scelta spontanea di un proprio “idolo” piuttosto che una tradizionale forma di pubblicità.
Di qui l’abuso di forme di pubblicità occulta sul canale meno facilmente monitorare: il web appunto.
Quali misure adottare per fare chiaramente capire ai consumatori se un post è oggetto di un contratto o no?
La risposta sarebbe semplicissima.
Sarebbe sufficiente prevedere che il post a pagamento contenga, in caratteri ben visibili, termini quali “Pubblicità”, “Sponsorizzato da”, “Annuncio commerciale” o avvisi simili.
In Italia, in assenza di una normativa che regolamenti specificamente la materia, si sono espressi sul punto sia l’Istituto della Pubblicità che l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.
Nella digital chart dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria si legge: “Celebrity/influencer/blogger, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social media e sui siti di content sharing devono inserire in modo ben distinguibile nella parte iniziale del post la dicitura: “Pubblicità/Advertising”, o “Promosso da … brand/Promoted by…brand” o “Sponsorizzato da…brand/Sponsored by…brand” o “in collaborazione con …brand” o “in partnership with …brand” e/o entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture:“#Pubblicità/#Advertising”, o “#Sponsorizzato da … brand/#Sponsored by… brand” o “#ad”unitamente a “#brand”.
L’AGCM, in un comunicato stampa del 2017, ha previsto l’uso delle seguenti indicazioni da collocare in calce al post unitamente ad altri #, quali “#pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento”, o, nel caso di fornitura del bene ancorché a titolo gratuito, “#prodottofornitoda”; diciture alle quali far sempre seguire il nome del marchio.
Scorrendo le pagine Instagram di Influencer più o meno noti, ci si accorge, però, che pochissimi sono coloro che fanno uso delle indicazioni consigliate dalle autorità.
E quando capita si rinvengono sperduti #ad, sulla cui efficacia (in Italia dove termini quali “advertising” “Adv” e a maggior ragione “ad” non sono decifrabili dal consumatore medio) è lecito nutrire forte perplessità.
Sino ad oggi l’AGCM è intervenuta inviando lettere di moral suasion a Influencer e ad aziende e non sono ancora stati emessi provvedimenti autodisciplinati, amministrativi o statuali.
La stessa situazione di incertezza è probabilmente riscontrabile in altri paesi (potete trovare al seguente link un articolo di Legalmondo su questo tema in Germania: https://www.legalmondo.com/2017/11/germany-product-placement-influencer-marketing/ ), con la conseguenza che le aziende che operano a livello globale si muovono in un contesto non chiaro, in cui è difficile identificare quali sono le condotte corrette, quelle sanzionabili dalle varie autorità competenti e quali siano i rischi derivanti da comportamenti ritenuti illegittimi.
Ho quindi deciso di scrivere questo contributo al fine di raccogliere lo stato dell’arte in Italia e in altri paesi del mondo, con l’obiettivo di mappare la disciplina vigente, i provvedimenti/decisioni emessi dalle Autorità competenti, i trend a livello internazionale e le best practice che le aziende che operano a livello globale possono adottare.
Siccome sono una delle socie fondatrici del progetto Digital Adv Lab – un osservatorio interdisciplinare che studia i risvolti legali delle iniziative di marketing e comunicazione digitale –, invito tutti i lettori coinvolti nelle tematiche del presente post ad inserire un commento e/o contattarmi: vi ricontatterò io per condividere le modalità di collaborazione sul progetto.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
La legge sul diritto d’autore in Italia (L. 633/1941) e le legislazioni di moltissimi paesi europei non garantiscono protezione alle creazioni pubblicitarie e alle relative campagne.
Gli articoli 1 e 2 della legge sul diritto d’autore elencano diverse opere dell’ingegno protette ma non includono i claim e le creazioni pubblicitarie. Dottrina e giurisprudenza sono unanimi nel ritenere che le ideazioni pubblicitarie non siano ricomprese in tale elenco, neppure interpretandolo estensivamente.
A tale carenza supplisce, o dovrebbe supplire, il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, (di seguito “Il Codice”).
L’art. 13 del Codice dispone quanto segue:
“Art. 13 – Imitazione, confusione e sfruttamento
Deve essere evitata qualsiasi imitazione servile della comunicazione commerciale altrui anche se relativa a prodotti non concorrenti, specie se idonea a creare confusione con l’altrui comunicazione commerciale.
Deve essere inoltre evitato qualsiasi sfruttamento del nome, del marchio, della notorietà e dell’immagine aziendale altrui, se inteso a trarre per sé un ingiustificato profitto.”
Sulla base dei principi che si desumono dalla giurisprudenza autodisciplinare, che si è trovata spesso a dover applicare l’art. 13 del Codice, emerge che i requisiti per l’ottenimento di una tutela ai sensi dell’art. 13 sono due: novità e originalità della comunicazione pubblicitaria.
È nuova un’idea che non sia stata in precedenza utilizzata da altri o, se è stata utilizzata, non sia più nella memoria dei consumatori.
È originale l’idea che sia il risultato di uno sforzo creativo apprezzabile.
Non sono originali e quindi non sono proteggibili le comunicazioni pubblicitarie che si avvalgono di stereotipi: ne è un esempio l’idea del confronto side-by-side su due piatti per mostrare l’efficacia di un detersivo.
Altro principio cardine consiste nel bilanciamento tra originalità e proteggibilità contro le imitazioni: tanto più una comunicazione è originale (e quindi non descrittiva del prodotto che intende pubblicizzare), tanto più sarà proteggibile nei confronti di comunicazioni simili.
L’art. 13 del Codice consente di proteggere sia il “cuore” di una campagna, ossia l’idea che ne costituisce l’essenza, sia la sola forma: ciò significa che se una campagna dotata di un “cuore” creativo diverso rispetto ad una campagna precedente di un soggetto terzo utilizza però i medesimi stilemi o un claim simile o identico, viene considerata illecita sulla base dell’art. 13 del Codice.
La giurisprudenza del Giurì negli anni ha affermato un principio fondamentale che ha costituito, per chi si occupa di diritto della pubblicità, un forte punto di riferimento: in presenza di un vero e proprio “calco” di una idea o di un claim altrui, specie se di un concorrente, il grado di originalità richiesto per potere accordare tutela alla prima ideazione pubblicitaria è praticamente nullo.
Anche un’idea o un claim banale potevano essere protetti sulla base dell’art. 13 del Codice qualora venissero copiati pedissequamente, specie se ciò accadeva per pubblicizzare prodotti della medesima categoria merceologica o idonei a soddisfare i medesimi bisogni.
Con la recentissima pronuncia n. 5/2018, il Giurì sembra avere modificato il proprio orientamento, con particolare riferimento al concetto di novità e di imitazione rilevante.
Il caso oggetto della decisione vedeva contrapposte due società concorrenti nel settore dell’ortofrutta: La Linea Verde (titolare del marchio Dimmidisì e produttrice dei prodotti contraddistinti da tale marchio) e Del Monte.
La Linea Verde ha iniziato ad utilizzare il claim “Tutti dicono di sì” all’inizio del 2017 in diverse campagne online e cartacee e in fiere di settore.
Alcuni mesi dopo (ottobre 2017) Del Monte ha utilizzato il claim “Tutti dicono sì” nell’ambito di proprie campagne pubblicitarie.
La Linea Verde ha quindi diffidato Del Monte a interrompere la propria campagna e, successivamente, ha depositato un’istanza al Giurì per la violazione dell’art. 13 del Codice.
In tale decisione, il Giurì dopo avere:
- accertato che i due claim “Tutti dicono di sì” e “Tutti dicono sì” sono comunicazionalmente identici, sia dal punto di vista formale (poiché il “di” è assolutamente irrilevante), sia dal punto di vista del contenuto, poiché entrambi i claim suggeriscono adesione e simpatia ai relativi prodotti;
- accertato l’anteriorità dell’uso del claim da parte di La Linea Verde, statuendo, tra le altre cose, che la divulgazione sul web e in una fiera di settore, anche se non sono comunicazioni censite dai motori di ricerca pubblicitari (come Easy way), sono adeguate a provare l’anteriorità di una comunicazione;
- accertato che il claim non era mai stato utilizzato in precedenza nel mercato di riferimento e neppure in altri mercati nel decennio precedente;
ha però affermato che lo slogan Del Monte deve considerarsi “logico sviluppo di una ideazione pubblicitaria che Del Monte, incontestabilmente, ha proposto da lungo tempo”, riferendosi alla nota pubblicità, “L’uomo Del Monte ha detto sì”, diffusa tra gli anni ’80 e ’90 e a quella meno nota “Sì al meglio, sì a Del Monte”.
Il Giurì ha in particolare affermato che, anche se si verifica una sovrapposizione formale tra i due claim, i due messaggi hanno una propria fisionomia che ne impedisce la loro sovrapposizione nella percezione del pubblico (ciò, a mio avviso contraddicendosi, dopo avere riconosciuto nella stessa decisione che i due claim suggeriscono il medesimo significato, ossia adesione e simpatia ai prodotti).
Pare quindi che la giurisprudenza del Giurì abbia operato una svolta importante in tema di imitazione e confondibilità dei claim (art. 13). E’ stato ritenuto lecito usare due claim (formalmente e ideologicamente) identici, ritenuti originali, sulla base di una continuità tra un’espressione specifica (“tutti dicono sì”) ed il percorso comunicativo (il “dire sì” di Del Monte).
Si tratta di un cambio di direzione del quale occorre prendere atto e che potrà, in futuro, creare grossi problemi ai creativi ed ai loro avvocati: non sarà sufficiente verificare se un claim o una idea pubblicitaria è già stata utilizzata da altri, ma bisognerà anche accertare che essa non possa costituire “un logico sviluppo” di una comunicazione, diversa, altrui. Giudizio, quest’ultimo, che si presenta dotato di una straordinaria soggettività, ai danni della certezza del diritto, principio cardine di ogni ordinamento giuridico.
L’autore di questo articolo è Elena Carpani.
These days, influencer marketing is an indispensable part of virtually any marketing strategy. The attention gained through influencer marketing has recently been a subject of discussion among the competition associations as well.
As a forerunner, the Association of Social Competition seems prepared to take a closer look at the topic, as indicated by several media statements. According to its general manager Angelika Lange, the association has already issued warnings to several dozen influencers (https://www.wuv.de/marketing/die_influencer_jaeger ).
The association does not shy away from litigation, either. Following Celle Higher Regional Court’s decision on the external presentation of influencer advertising in June 2017, Hagen Regional Court (September 13, 2017 – Case 23 O 30/17) dealt not only with the external presentation but also with the content of an influencer’s statements.
Influencer Scarlett Gartmann is said to have advertised various products on her Instagram account without marking the content or individual sections as “advertising” (“Anzeige”) or “promotion” (“Werbung”). Hagen Regional Court, like Celle Higher Regional Court, considered this a violation of the marking obligations under competition law.
While this decision was to be expected, what is noteworthy is the component that deals with the content. The regional court obviously also had to decide on the use of the term detox by the influencer, which the Court considered a “health claim” in combination with the drink that was advertised by means of a photograph. Such a claim would not be permitted, however, which is why another prohibition claim against the influencer existed.
Practical tip
Particularly in areas that are sensitive to regulatory requirements, such as food law or medical device law, influencers and companies that are commissioning influencers should check in advance whether certain statements can actually be made as planned. Even though the external form can be preserved relatively easily by marking the text as “advertising” or “promotion,” there may be considerable and costly warning potential when the content of statements is examined, which the competition associations increasingly seem intent on exploiting.
The author of this post is Ilja Czernik.
The eSports sector is growing rapidly as illustrated by the following figures:
In 2017, the eSports economy grew to US-$696 million, a year-on-year growth of 41.3%.
Brands invested $517 million in 2017, which is expected to double by 2020.
Worldwide, the global eSports audience reached 385 million in 2017, with 191 million regular viewers.
(cf. https://newzoo.com/insights/trend-reports/global-esports-market-report-2017-light/)
North America continues to be the largest eSports market with revenues of US-$257 million. There is also continual development of eSports in Germany, however. The professional soccer teams of VfL Wolfsburg and FC Schalke 04 have their own eSports teams (http://www.gameswirtschaft.de/sport/esports-fussball-bundesliga/), and the German eSports Federation Deutschland has recently been founded, with the Federal Association of Interactive Entertainment Software (BIU) as a founding member (http://www.horizont.net/marketing/nachrichten/ESBD-E-Sport-Bund-Deutschland-geht-an-den-Start-162957).
In areas where such a lot of money can be made, legal obstacles are never far away. Here, they comprise a wide range of all kinds of different topics.
The initial focus is on copyrights and ancillary copyrights. Soccer stadiums, buildings, and avatars may enjoy copyright protection just as much as the computer program on which the games are based. Another item of discussion is whether eAthletes are to be classified as “performing artists” in accordance with Section 73 German Copyright Act. In addition, the question arises as to who enjoys ancillary copyrights under Section 81 Copyright Act as organizer of eSports events and whether such organizers have the same domiciliary rights as the organizers of a regular sports event.
In terms of trademark and design law, it will have to be discussed to what extent products and brand images represent infringements of the Trademark Act and the Design Act. In the case of brands and trademarks in particular, the question will be to what extent they are design objects or indications of origin.
Finally, there will also be regulatory issues that need to be observed. In addition to the use of cheatbots and doping substances, the main focus will be on the protection of minors and the Interstate Broadcasting Treaty with its advertising restrictions.
In conclusion, one suggestion: keep an eye on the eSports movement! Companies that want to stay ahead of the curve, should deal with the aforementioned issues and all further questions in timely manner.
The author of this post is Ilja Czernik.
Influencer marketing is the trend in today’s world of advertising. Even though it is obvious that influencer marketing must observe the framework of applicable statutory provisions, the market has long been uncertain about how influencer posts are to be drafted in order to be legally compliant. The current decision of Celle Higher Regional Court (June 08, 2017 – Case 13 U 53/17) offers at least some clarity.
The judgment was issued in relation to an action for injunction by the German Association for Social Competition (Verband Sozialer Wettbewerb) against a German drugstore chain. A 20-year-old Instagram star with 1.3 million followers had advertised the drugstore chain in one of her posts. The post was only marked as advertisement at the bottom with the hashtag “#ad,” which additionally only came second in a list of six hashtags.
Celle Higher Regional Court adjudged that this type of marking was insufficient. The court requested that the commercial purpose of an Instagram post would have to be apparent at first sight. It did not consider use of the hashtag “#ad” in a “hashtag cloud” to be sufficient to mark the post as advertising.
The court left expressly open, however, whether the use of the hashtag “#ad” is generally suitable to mark advertising posts.
The state media authorities (Landesmedienanstalten) already reacted to the judgment, however, and revised their joint guide on advertising issues in social media. It now reads: “When marking a post as PROMOTION (Werbung) or ADVERTISING (Anzeige), you will be on the safe side – that much is certain. […] At the current time, we cannot recommend marking posts as #ad, #sponsored by, or #powered by.” In the future, Instagram itself intends to provide for more transparency on the platform by comprehensibly identifying advertising posts. It is currently testing the introduction of a branded content tool in Germany to make it easier for users to recognize posts as paid advertising.
Practical tip
Advertising posts in social media should always be marked as “promotion” or “advertising” at the beginning of the posts unless their commercial purpose arises directly from the circumstances. Advertisers are also advised to obligate influencers contractually to such legally compliant marking of posts, since the influencers’ behavior may be attributed to the company, as is clearly shown by the recent judgment of Celle Higher Regional Court against the drugstore chain.
The author of this post is Ilja Czernik.