MetaBirkins NFT found to infringe Hermes trademark

22 Marzo 2023

  • USA
  • Proprietà industriale e intellettuale

Summary

Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

“Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

Riassunto

Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

Di cosa parlo in questo articolo: 

  • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
  • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
  • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
  • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
  • La durata del contratto di distribuzione all’estero
  • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
  • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
  • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
  • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
  • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

phil

Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

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Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

 Le modalità di risoluzione delle controversie

Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

Come possiamo aiutarti

La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

 

In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

Criteria for adopting and filing a trademark in India

To be granted registration, the trademark should be:

  • non-generic
  • non-descriptive
  • not-identical
  • non–deceptive

Trademark Search

It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

How to make the application?

One can consider making a trademark application in the following ways:

  • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
  • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
  • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

Objection by the Office – Grounds of Refusal

Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

Objection Hearing

When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

Publication in TM journal

After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

Third Party Opposition

Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

Validity of Trademark Registration

The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

“Use of Mark” an important condition for trademark registration

  • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
  • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

  • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
  • established a strong reputation and goodwill in the market; and
  • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

Appeals

Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

Il ruolo di Amazon

La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

La decisione della Corte di Giustizia UE

Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

  • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
  • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
  • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

Conclusioni

Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

  • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
  • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
  • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
  • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

Consigli pratici

Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

  1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
  2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
  3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
  4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
  5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


The Qualified Intellectual Property Rights

The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

  • rights to an invention (patents)
  • additional protective rights for an invention
  • rights for the utility model
  • rights from the registration of an industrial design
  • rights from registration of the integrated circuit topography
  • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
  • rights from registration of medicinal or veterinary product
  • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
  • rights to a computer program

The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

Conditions for the application of the Patent Box

A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

The following kinds of income may be subject to tax relief:

  • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
  • the sale of qualified intellectual property rights
  • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
  • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

How to calculate the tax base

The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

Obligations related to the application of the tax relief

In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

Startups and Trademarks – Get it right from the Start

As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

First, do not start from the end

When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

Second, know what you are protecting

Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

Third, avoid the “classification nightmare”

The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

On a brief, do not neglect IP, before is too late.

The author of this post is Josè Varanda

Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

  1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
  2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
  3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

Mattia Dalla Costa

Practice areas

  • Diritto societario
  • e-commerce
  • Franchising
  • Proprietà industriale e intellettuale
  • Marchi e brevetti

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    Il Contratto di distribuzione commerciale internazionale | 7 insegnamenti dalla storia di Nike

    25 Febbraio 2023

    • Italia
    • Contratti
    • Distribuzione
    • Marchi e brevetti
    • Proprietà industriale e intellettuale

    Summary

    Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

    A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

    The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

    Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

    NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

    The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

    “Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

    The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

    Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

    TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

    The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

    For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

    Riassunto

    Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
    Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
    Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
    Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

    Di cosa parlo in questo articolo: 

    • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
    • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
    • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
    • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
    • La durata del contratto di distribuzione all’estero
    • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
    • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
    • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
    • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
    • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

    La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

    Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

    Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

    phil

    Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

    La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

    La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

    Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

    niketiger

    Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

    A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

    Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

    Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

    Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

    Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

    Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

    Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

    Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

    Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

    Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

    Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

    L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

    Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

    Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

    Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

    La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

    In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

    Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

    In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

    Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

    Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

    In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

    Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

    Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

    Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

    Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

    Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

    Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

    In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

    Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

    E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

    Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

    Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

    Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

    L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

    Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

    Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

    In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

    Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

    Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

    L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

    Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

    tiger

    Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

    Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

    E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

    Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

    Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

    La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

    Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

    Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

    Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

    tiger

    Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

    È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

    Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

    I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

    È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

    Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

    La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

    La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

    Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

    Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

    La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

    I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

    Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

    La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

    Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

     Le modalità di risoluzione delle controversie

    Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

    Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

    Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

    Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

    Come possiamo aiutarti

    La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

    È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

    Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

     

    In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

    But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

    The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

    Criteria for adopting and filing a trademark in India

    To be granted registration, the trademark should be:

    • non-generic
    • non-descriptive
    • not-identical
    • non–deceptive

    Trademark Search

    It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

    How to make the application?

    One can consider making a trademark application in the following ways:

    • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
    • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
    • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

    Objection by the Office – Grounds of Refusal

    Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

    A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

    Objection Hearing

    When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

    Publication in TM journal

    After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

    Third Party Opposition

    Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

    Validity of Trademark Registration

    The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

    “Use of Mark” an important condition for trademark registration

    • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
    • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

    Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

    Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

    Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

    Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

    • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
    • established a strong reputation and goodwill in the market; and
    • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

    How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

    An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

    For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

    For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

    In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

    Appeals

    Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

    It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

    Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


    Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

    Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

    In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

    The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

    The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

    First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

    The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

    The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

    Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

    Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


    Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

    Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

    Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

    Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

    Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

    Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

    Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

    Il ruolo di Amazon

    La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

    La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

    Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

    Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

    Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

    La decisione della Corte di Giustizia UE

    Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

    Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

    La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

    • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
    • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
    • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

    Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

    Conclusioni

    Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

    Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

    • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
    • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
    • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
    • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

    Consigli pratici

    Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

    1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
    2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
    3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
    4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
    5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

    Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


    The Qualified Intellectual Property Rights

    The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

    • rights to an invention (patents)
    • additional protective rights for an invention
    • rights for the utility model
    • rights from the registration of an industrial design
    • rights from registration of the integrated circuit topography
    • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
    • rights from registration of medicinal or veterinary product
    • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
    • rights to a computer program

    The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

    Conditions for the application of the Patent Box

    A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

    For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

    The following kinds of income may be subject to tax relief:

    • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
    • the sale of qualified intellectual property rights
    • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
    • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

    How to calculate the tax base

    The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

    The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

    It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

    It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

    Obligations related to the application of the tax relief

    In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

    The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

    The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

    Startups and Trademarks – Get it right from the Start

    As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

    Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

    Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

    Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

    First, do not start from the end

    When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

    A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

    Second, know what you are protecting

    Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

    Third, avoid the “classification nightmare”

    The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

    The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

    On a brief, do not neglect IP, before is too late.

    The author of this post is Josè Varanda

    Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

    1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
    2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
    3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

    Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

    Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

    Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

    Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

    La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

    La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

    Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

    In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

    Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

    Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

    Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

    Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

    La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

    Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

    Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

    Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

    Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

    Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

    Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

    L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

    Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

    L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

    Roberto Luzi Crivellini

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      India – How to protect your Trademark

      21 Giugno 2022

      • India
      • Proprietà industriale e intellettuale
      • Marchi e brevetti

      Summary

      Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

      A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

      The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

      Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

      NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

      The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

      “Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

      The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

      Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

      TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

      The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

      For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

      Riassunto

      Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
      Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
      Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
      Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

      Di cosa parlo in questo articolo: 

      • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
      • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
      • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
      • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
      • La durata del contratto di distribuzione all’estero
      • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
      • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
      • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
      • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
      • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

      La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

      Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

      Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

      phil

      Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

      La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

      La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

      Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

      niketiger

      Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

      A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

      Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

      Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

      Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

      Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

      Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

      Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

      Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

      Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

      Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

      Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

      L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

      Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

      Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

      Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

      La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

      In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

      Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

      In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

      Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

      Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

      In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

      Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

      Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

      Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

      Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

      Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

      Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

      In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

      Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

      E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

      Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

      Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

      Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

      L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

      Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

      Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

      In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

      Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

      Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

      L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

      Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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      Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

      Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

      E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

      Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

      Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

      La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

      Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

      Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

      Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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      Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

      È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

      Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

      I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

      È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

      Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

      La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

      La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

      Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

      Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

      La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

      I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

      Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

      La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

      Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

       Le modalità di risoluzione delle controversie

      Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

      Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

      Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

      Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

      Come possiamo aiutarti

      La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

      È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

      Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

       

      In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

      But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

      The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

      Criteria for adopting and filing a trademark in India

      To be granted registration, the trademark should be:

      • non-generic
      • non-descriptive
      • not-identical
      • non–deceptive

      Trademark Search

      It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

      How to make the application?

      One can consider making a trademark application in the following ways:

      • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
      • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
      • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

      Objection by the Office – Grounds of Refusal

      Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

      A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

      Objection Hearing

      When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

      Publication in TM journal

      After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

      Third Party Opposition

      Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

      Validity of Trademark Registration

      The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

      “Use of Mark” an important condition for trademark registration

      • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
      • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

      Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

      Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

      Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

      Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

      • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
      • established a strong reputation and goodwill in the market; and
      • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

      How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

      An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

      For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

      For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

      In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

      Appeals

      Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

      It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

      Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


      Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

      Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

      In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

      The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

      The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

      First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

      The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

      The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

      Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

      Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


      Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

      Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

      Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

      Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

      Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

      Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

      Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

      Il ruolo di Amazon

      La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

      La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

      Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

      Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

      Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

      La decisione della Corte di Giustizia UE

      Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

      Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

      La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

      • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
      • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
      • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

      Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

      Conclusioni

      Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

      Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

      • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
      • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
      • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
      • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

      Consigli pratici

      Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

      1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
      2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
      3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
      4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
      5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

      Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


      The Qualified Intellectual Property Rights

      The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

      • rights to an invention (patents)
      • additional protective rights for an invention
      • rights for the utility model
      • rights from the registration of an industrial design
      • rights from registration of the integrated circuit topography
      • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
      • rights from registration of medicinal or veterinary product
      • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
      • rights to a computer program

      The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

      Conditions for the application of the Patent Box

      A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

      For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

      The following kinds of income may be subject to tax relief:

      • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
      • the sale of qualified intellectual property rights
      • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
      • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

      How to calculate the tax base

      The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

      The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

      It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

      It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

      Obligations related to the application of the tax relief

      In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

      The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

      The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

      Startups and Trademarks – Get it right from the Start

      As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

      Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

      Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

      Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

      First, do not start from the end

      When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

      A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

      Second, know what you are protecting

      Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

      Third, avoid the “classification nightmare”

      The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

      The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

      On a brief, do not neglect IP, before is too late.

      The author of this post is Josè Varanda

      Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

      1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
      2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
      3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

      Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

      Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

      Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

      Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

      La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

      La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

      Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

      In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

      Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

      Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

      Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

      Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

      La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

      Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

      Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

      Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

      Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

      Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

      Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

      L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

      Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

      L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

      Ramesh Vaidyanathan

      Practice areas

      • Diritto societario
      • Investimenti stranieri
      • Tecnologia dell'informazione
      • Lavoro
      • M&A

      Scrivi a MetaBirkins NFT found to infringe Hermes trademark





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        The Protection of Community Design in the European Union

        17 Settembre 2020

        • EU
        • Proprietà industriale e intellettuale
        • Contenzioso

        Summary

        Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

        A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

        The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

        Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

        NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

        The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

        “Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

        The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

        Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

        TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

        The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

        For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

        Riassunto

        Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
        Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
        Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
        Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

        Di cosa parlo in questo articolo: 

        • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
        • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
        • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
        • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
        • La durata del contratto di distribuzione all’estero
        • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
        • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
        • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
        • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
        • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

        La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

        Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

        Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

        phil

        Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

        La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

        La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

        Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

        niketiger

        Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

        A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

        Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

        Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

        Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

        Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

        Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

        Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

        Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

        Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

        Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

        Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

        L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

        Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

        Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

        Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

        La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

        In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

        Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

        In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

        Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

        Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

        In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

        Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

        Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

        Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

        Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

        Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

        Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

        In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

        Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

        E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

        Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

        Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

        Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

        L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

        Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

        Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

        In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

        Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

        Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

        L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

        Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

        tiger

        Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

        Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

        E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

        Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

        Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

        La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

        Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

        Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

        Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

        tiger

        Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

        È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

        Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

        I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

        È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

        Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

        La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

        La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

        Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

        Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

        La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

        I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

        Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

        La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

        Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

         Le modalità di risoluzione delle controversie

        Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

        Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

        Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

        Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

        Come possiamo aiutarti

        La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

        È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

        Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

         

        In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

        But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

        The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

        Criteria for adopting and filing a trademark in India

        To be granted registration, the trademark should be:

        • non-generic
        • non-descriptive
        • not-identical
        • non–deceptive

        Trademark Search

        It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

        How to make the application?

        One can consider making a trademark application in the following ways:

        • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
        • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
        • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

        Objection by the Office – Grounds of Refusal

        Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

        A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

        Objection Hearing

        When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

        Publication in TM journal

        After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

        Third Party Opposition

        Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

        Validity of Trademark Registration

        The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

        “Use of Mark” an important condition for trademark registration

        • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
        • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

        Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

        Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

        Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

        Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

        • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
        • established a strong reputation and goodwill in the market; and
        • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

        How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

        An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

        For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

        For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

        In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

        Appeals

        Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

        It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

        Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


        Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

        Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

        In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

        The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

        The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

        First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

        The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

        The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

        Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

        Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


        Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

        Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

        Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

        Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

        Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

        Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

        Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

        Il ruolo di Amazon

        La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

        La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

        Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

        Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

        Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

        La decisione della Corte di Giustizia UE

        Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

        Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

        La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

        • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
        • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
        • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

        Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

        Conclusioni

        Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

        Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

        • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
        • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
        • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
        • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

        Consigli pratici

        Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

        1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
        2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
        3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
        4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
        5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

        Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


        The Qualified Intellectual Property Rights

        The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

        • rights to an invention (patents)
        • additional protective rights for an invention
        • rights for the utility model
        • rights from the registration of an industrial design
        • rights from registration of the integrated circuit topography
        • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
        • rights from registration of medicinal or veterinary product
        • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
        • rights to a computer program

        The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

        Conditions for the application of the Patent Box

        A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

        For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

        The following kinds of income may be subject to tax relief:

        • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
        • the sale of qualified intellectual property rights
        • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
        • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

        How to calculate the tax base

        The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

        The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

        It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

        It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

        Obligations related to the application of the tax relief

        In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

        The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

        The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

        Startups and Trademarks – Get it right from the Start

        As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

        Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

        Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

        Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

        First, do not start from the end

        When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

        A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

        Second, know what you are protecting

        Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

        Third, avoid the “classification nightmare”

        The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

        The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

        On a brief, do not neglect IP, before is too late.

        The author of this post is Josè Varanda

        Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

        1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
        2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
        3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

        Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

        Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

        Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

        Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

        La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

        La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

        Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

        In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

        Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

        Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

        Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

        Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

        La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

        Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

        Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

        Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

        Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

        Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

        Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

        L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

        Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

        L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

        Christian Montana

        Practice areas

        • Diritto internazionale privato
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        Scrivi a MetaBirkins NFT found to infringe Hermes trademark





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          Quando Amazon è responsabile per le violazioni dei marchi sul Marketplace?

          7 Aprile 2020

          • Europa
          • Italia
          • eCommerce
          • Proprietà industriale e intellettuale

          Summary

          Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

          A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

          The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

          Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

          NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

          The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

          “Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

          The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

          Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

          TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

          The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

          For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

          Riassunto

          Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
          Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
          Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
          Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

          Di cosa parlo in questo articolo: 

          • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
          • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
          • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
          • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
          • La durata del contratto di distribuzione all’estero
          • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
          • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
          • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
          • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
          • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

          La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

          Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

          Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

          phil

          Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

          La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

          La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

          Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

          niketiger

          Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

          A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

          Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

          Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

          Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

          Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

          Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

          Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

          Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

          Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

          Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

          Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

          L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

          Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

          Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

          Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

          La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

          In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

          Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

          In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

          Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

          Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

          In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

          Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

          Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

          Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

          Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

          Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

          Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

          In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

          Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

          E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

          Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

          Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

          Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

          L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

          Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

          Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

          In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

          Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

          Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

          L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

          Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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          Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

          Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

          E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

          Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

          Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

          La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

          Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

          Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

          Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

          tiger

          Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

          È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

          Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

          I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

          È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

          Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

          La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

          La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

          Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

          Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

          La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

          I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

          Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

          La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

          Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

           Le modalità di risoluzione delle controversie

          Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

          Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

          Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

          Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

          Come possiamo aiutarti

          La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

          È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

          Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

           

          In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

          But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

          The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

          Criteria for adopting and filing a trademark in India

          To be granted registration, the trademark should be:

          • non-generic
          • non-descriptive
          • not-identical
          • non–deceptive

          Trademark Search

          It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

          How to make the application?

          One can consider making a trademark application in the following ways:

          • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
          • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
          • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

          Objection by the Office – Grounds of Refusal

          Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

          A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

          Objection Hearing

          When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

          Publication in TM journal

          After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

          Third Party Opposition

          Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

          Validity of Trademark Registration

          The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

          “Use of Mark” an important condition for trademark registration

          • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
          • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

          Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

          Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

          Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

          Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

          • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
          • established a strong reputation and goodwill in the market; and
          • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

          How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

          An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

          For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

          For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

          In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

          Appeals

          Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

          It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

          Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


          Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

          Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

          In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

          The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

          The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

          First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

          The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

          The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

          Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

          Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


          Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

          Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

          Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

          Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

          Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

          Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

          Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

          Il ruolo di Amazon

          La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

          La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

          Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

          Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

          Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

          La decisione della Corte di Giustizia UE

          Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

          Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

          La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

          • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
          • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
          • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

          Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

          Conclusioni

          Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

          Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

          • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
          • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
          • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
          • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

          Consigli pratici

          Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

          1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
          2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
          3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
          4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
          5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

          Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


          The Qualified Intellectual Property Rights

          The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

          • rights to an invention (patents)
          • additional protective rights for an invention
          • rights for the utility model
          • rights from the registration of an industrial design
          • rights from registration of the integrated circuit topography
          • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
          • rights from registration of medicinal or veterinary product
          • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
          • rights to a computer program

          The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

          Conditions for the application of the Patent Box

          A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

          For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

          The following kinds of income may be subject to tax relief:

          • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
          • the sale of qualified intellectual property rights
          • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
          • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

          How to calculate the tax base

          The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

          The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

          It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

          It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

          Obligations related to the application of the tax relief

          In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

          The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

          The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

          Startups and Trademarks – Get it right from the Start

          As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

          Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

          Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

          Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

          First, do not start from the end

          When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

          A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

          Second, know what you are protecting

          Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

          Third, avoid the “classification nightmare”

          The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

          The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

          On a brief, do not neglect IP, before is too late.

          The author of this post is Josè Varanda

          Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

          1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
          2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
          3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

          Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

          Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

          Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

          Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

          La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

          La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

          Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

          In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

          Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

          Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

          Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

          Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

          La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

          Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

          Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

          Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

          Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

          Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

          Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

          L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

          Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

          L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

          Giuliano Stasio

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          Scrivi a MetaBirkins NFT found to infringe Hermes trademark





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            Poland – Intellectual Property (IP) Box

            18 Gennaio 2020

            • Poland
            • Proprietà industriale e intellettuale

            Summary

            Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

            A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

            The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

            Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

            NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

            The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

            “Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

            The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

            Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

            TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

            The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

            For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

            Riassunto

            Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
            Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
            Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
            Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

            Di cosa parlo in questo articolo: 

            • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
            • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
            • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
            • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
            • La durata del contratto di distribuzione all’estero
            • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
            • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
            • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
            • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
            • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

            La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

            Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

            Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

            phil

            Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

            La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

            La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

            Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

            niketiger

            Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

            A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

            Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

            Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

            Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

            Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

            Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

            Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

            Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

            Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

            Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

            Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

            L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

            Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

            Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

            Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

            La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

            In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

            Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

            In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

            Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

            Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

            In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

            Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

            Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

            Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

            Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

            Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

            Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

            In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

            Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

            E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

            Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

            Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

            Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

            L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

            Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

            Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

            In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

            Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

            Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

            L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

            Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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            Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

            Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

            E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

            Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

            Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

            La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

            Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

            Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

            Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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            Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

            È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

            Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

            I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

            È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

            Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

            La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

            La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

            Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

            Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

            La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

            I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

            Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

            La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

            Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

             Le modalità di risoluzione delle controversie

            Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

            Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

            Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

            Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

            Come possiamo aiutarti

            La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

            È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

            Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

             

            In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

            But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

            The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

            Criteria for adopting and filing a trademark in India

            To be granted registration, the trademark should be:

            • non-generic
            • non-descriptive
            • not-identical
            • non–deceptive

            Trademark Search

            It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

            How to make the application?

            One can consider making a trademark application in the following ways:

            • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
            • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
            • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

            Objection by the Office – Grounds of Refusal

            Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

            A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

            Objection Hearing

            When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

            Publication in TM journal

            After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

            Third Party Opposition

            Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

            Validity of Trademark Registration

            The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

            “Use of Mark” an important condition for trademark registration

            • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
            • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

            Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

            Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

            Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

            Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

            • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
            • established a strong reputation and goodwill in the market; and
            • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

            How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

            An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

            For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

            For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

            In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

            Appeals

            Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

            It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

            Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


            Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

            Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

            In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

            The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

            The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

            First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

            The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

            The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

            Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

            Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


            Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

            Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

            Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

            Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

            Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

            Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

            Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

            Il ruolo di Amazon

            La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

            La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

            Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

            Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

            Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

            La decisione della Corte di Giustizia UE

            Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

            Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

            La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

            • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
            • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
            • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

            Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

            Conclusioni

            Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

            Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

            • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
            • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
            • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
            • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

            Consigli pratici

            Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

            1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
            2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
            3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
            4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
            5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

            Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


            The Qualified Intellectual Property Rights

            The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

            • rights to an invention (patents)
            • additional protective rights for an invention
            • rights for the utility model
            • rights from the registration of an industrial design
            • rights from registration of the integrated circuit topography
            • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
            • rights from registration of medicinal or veterinary product
            • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
            • rights to a computer program

            The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

            Conditions for the application of the Patent Box

            A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

            For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

            The following kinds of income may be subject to tax relief:

            • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
            • the sale of qualified intellectual property rights
            • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
            • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

            How to calculate the tax base

            The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

            The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

            It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

            It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

            Obligations related to the application of the tax relief

            In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

            The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

            The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

            Startups and Trademarks – Get it right from the Start

            As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

            Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

            Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

            Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

            First, do not start from the end

            When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

            A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

            Second, know what you are protecting

            Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

            Third, avoid the “classification nightmare”

            The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

            The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

            On a brief, do not neglect IP, before is too late.

            The author of this post is Josè Varanda

            Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

            1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
            2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
            3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

            Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

            Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

            Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

            Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

            La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

            La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

            Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

            In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

            Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

            Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

            Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

            Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

            La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

            Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

            Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

            Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

            Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

            Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

            Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

            L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

            Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

            L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

            Agata Adamczyk

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            Scrivi a MetaBirkins NFT found to infringe Hermes trademark





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              Startups and Trademarks

              2 Ottobre 2019

              • Portogallo
              • Proprietà industriale e intellettuale
              • Start-up

              Summary

              Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

              A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

              The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

              Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

              NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

              The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

              “Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

              The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

              Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

              TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

              The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

              For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

              Riassunto

              Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
              Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
              Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
              Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

              Di cosa parlo in questo articolo: 

              • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
              • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
              • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
              • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
              • La durata del contratto di distribuzione all’estero
              • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
              • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
              • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
              • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
              • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

              La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

              Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

              Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

              phil

              Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

              La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

              La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

              Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

              niketiger

              Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

              A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

              Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

              Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

              Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

              Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

              Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

              Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

              Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

              Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

              Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

              Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

              L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

              Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

              Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

              Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

              La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

              In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

              Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

              In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

              Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

              Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

              In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

              Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

              Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

              Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

              Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

              Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

              Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

              In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

              Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

              E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

              Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

              Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

              Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

              L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

              Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

              Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

              In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

              Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

              Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

              L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

              Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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              Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

              Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

              E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

              Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

              Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

              La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

              Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

              Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

              Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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              Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

              È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

              Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

              I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

              È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

              Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

              La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

              La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

              Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

              Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

              La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

              I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

              Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

              La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

              Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

               Le modalità di risoluzione delle controversie

              Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

              Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

              Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

              Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

              Come possiamo aiutarti

              La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

              È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

              Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

               

              In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

              But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

              The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

              Criteria for adopting and filing a trademark in India

              To be granted registration, the trademark should be:

              • non-generic
              • non-descriptive
              • not-identical
              • non–deceptive

              Trademark Search

              It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

              How to make the application?

              One can consider making a trademark application in the following ways:

              • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
              • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
              • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

              Objection by the Office – Grounds of Refusal

              Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

              A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

              Objection Hearing

              When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

              Publication in TM journal

              After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

              Third Party Opposition

              Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

              Validity of Trademark Registration

              The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

              “Use of Mark” an important condition for trademark registration

              • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
              • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

              Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

              Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

              Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

              Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

              • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
              • established a strong reputation and goodwill in the market; and
              • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

              How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

              An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

              For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

              For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

              In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

              Appeals

              Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

              It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

              Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


              Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

              Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

              In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

              The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

              The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

              First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

              The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

              The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

              Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

              Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


              Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

              Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

              Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

              Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

              Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

              Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

              Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

              Il ruolo di Amazon

              La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

              La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

              Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

              Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

              Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

              La decisione della Corte di Giustizia UE

              Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

              Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

              La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

              • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
              • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
              • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

              Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

              Conclusioni

              Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

              Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

              • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
              • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
              • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
              • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

              Consigli pratici

              Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

              1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
              2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
              3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
              4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
              5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

              Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


              The Qualified Intellectual Property Rights

              The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

              • rights to an invention (patents)
              • additional protective rights for an invention
              • rights for the utility model
              • rights from the registration of an industrial design
              • rights from registration of the integrated circuit topography
              • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
              • rights from registration of medicinal or veterinary product
              • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
              • rights to a computer program

              The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

              Conditions for the application of the Patent Box

              A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

              For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

              The following kinds of income may be subject to tax relief:

              • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
              • the sale of qualified intellectual property rights
              • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
              • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

              How to calculate the tax base

              The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

              The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

              It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

              It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

              Obligations related to the application of the tax relief

              In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

              The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

              The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

              Startups and Trademarks – Get it right from the Start

              As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

              Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

              Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

              Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

              First, do not start from the end

              When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

              A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

              Second, know what you are protecting

              Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

              Third, avoid the “classification nightmare”

              The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

              The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

              On a brief, do not neglect IP, before is too late.

              The author of this post is Josè Varanda

              Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

              1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
              2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
              3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

              Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

              Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

              Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

              Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

              La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

              La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

              Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

              In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

              Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

              Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

              Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

              Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

              La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

              Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

              Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

              Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

              Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

              Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

              Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

              L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

              Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

              L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

              La tutela “ultra-merceologica” dei marchi che godono di rinomanza

              7 Maggio 2019

              • Italia
              • Marchi e brevetti
              • Proprietà industriale e intellettuale

              Summary

              Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

              A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

              The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

              Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

              NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

              The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

              “Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

              The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

              Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

              TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

              The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

              For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

              Riassunto

              Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
              Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
              Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
              Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

              Di cosa parlo in questo articolo: 

              • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
              • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
              • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
              • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
              • La durata del contratto di distribuzione all’estero
              • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
              • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
              • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
              • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
              • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

              La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

              Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

              Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

              phil

              Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

              La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

              La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

              Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

              niketiger

              Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

              A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

              Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

              Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

              Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

              Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

              Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

              Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

              Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

              Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

              Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

              Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

              L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

              Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

              Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

              Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

              La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

              In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

              Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

              In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

              Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

              Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

              In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

              Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

              Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

              Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

              Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

              Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

              Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

              In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

              Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

              E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

              Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

              Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

              Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

              L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

              Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

              Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

              In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

              Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

              Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

              L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

              Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

              tiger

              Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

              Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

              E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

              Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

              Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

              La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

              Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

              Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

              Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

              tiger

              Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

              È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

              Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

              I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

              È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

              Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

              La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

              La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

              Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

              Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

              La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

              I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

              Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

              La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

              Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

               Le modalità di risoluzione delle controversie

              Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

              Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

              Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

              Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

              Come possiamo aiutarti

              La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

              È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

              Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

               

              In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

              But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

              The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

              Criteria for adopting and filing a trademark in India

              To be granted registration, the trademark should be:

              • non-generic
              • non-descriptive
              • not-identical
              • non–deceptive

              Trademark Search

              It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

              How to make the application?

              One can consider making a trademark application in the following ways:

              • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
              • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
              • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

              Objection by the Office – Grounds of Refusal

              Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

              A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

              Objection Hearing

              When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

              Publication in TM journal

              After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

              Third Party Opposition

              Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

              Validity of Trademark Registration

              The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

              “Use of Mark” an important condition for trademark registration

              • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
              • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

              Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

              Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

              Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

              Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

              • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
              • established a strong reputation and goodwill in the market; and
              • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

              How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

              An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

              For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

              For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

              In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

              Appeals

              Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

              It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

              Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


              Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

              Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

              In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

              The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

              The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

              First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

              The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

              The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

              Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

              Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


              Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

              Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

              Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

              Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

              Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

              Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

              Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

              Il ruolo di Amazon

              La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

              La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

              Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

              Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

              Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

              La decisione della Corte di Giustizia UE

              Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

              Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

              La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

              • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
              • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
              • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

              Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

              Conclusioni

              Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

              Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

              • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
              • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
              • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
              • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

              Consigli pratici

              Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

              1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
              2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
              3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
              4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
              5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

              Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


              The Qualified Intellectual Property Rights

              The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

              • rights to an invention (patents)
              • additional protective rights for an invention
              • rights for the utility model
              • rights from the registration of an industrial design
              • rights from registration of the integrated circuit topography
              • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
              • rights from registration of medicinal or veterinary product
              • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
              • rights to a computer program

              The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

              Conditions for the application of the Patent Box

              A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

              For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

              The following kinds of income may be subject to tax relief:

              • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
              • the sale of qualified intellectual property rights
              • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
              • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

              How to calculate the tax base

              The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

              The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

              It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

              It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

              Obligations related to the application of the tax relief

              In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

              The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

              The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

              Startups and Trademarks – Get it right from the Start

              As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

              Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

              Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

              Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

              First, do not start from the end

              When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

              A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

              Second, know what you are protecting

              Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

              Third, avoid the “classification nightmare”

              The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

              The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

              On a brief, do not neglect IP, before is too late.

              The author of this post is Josè Varanda

              Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

              1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
              2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
              3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

              Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

              Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

              Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

              Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

              La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

              La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

              Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

              In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

              Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

              Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

              Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

              Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

              La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

              Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

              Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

              Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

              Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

              Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

              Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

              L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

              Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

              L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

              Italy – Trade Secrets: new regulation for a better protection

              27 Giugno 2018

              • Italia
              • Proprietà industriale e intellettuale

              Summary

              Artist Mason Rothschild created a collection of digital images named “MetaBirkins”, each of which depicted a unique image of a blurry faux-fur covered the iconic Hermès bags, and sold them via NFT without any (license) agreement with the French Maison. HERMES brought its trademark action against Rothschild on January 14, 2022.

              A Manhattan federal jury of nine persons returned after the trial a verdict stating that Mason Rothschild’s sale of the NFT violated the HERMES’ rights and committed trademark infringement, trademark dilution, and cybersquatting (through the use of the domain name “www.metabirkins.com”) because the US First Amendment protection could not apply in this case and awarded HERMES the following damages: 110.000 US$ as net profit earned by Mason Rothschild and 23.000 US$ because of cybersquatting.

              The sale of approx. 100 METABIRKIN NFTs occurred after a broad marketing campaign done by Mason Rothschild on social media.

              Rothschild’s defense was that digital images linked to NFT “constitute a form of artistic expression” i.e. a work of art protected under the First Amendment and similar to Andy Wahrhol’s paintings of Campbell’s soup cans. The aim of the defense was to have the “Rogers” legal test (so-called after the case Rogers vs Grimaldi) applied, according to which artists are entitled to use trademarks without permission as long as the work has an artistic value and is not misleading the consumers.

              NFTs are digital record (a sort of “digital deed”) of ownership typically recorded in a publicly accessible ledger known as blockchain. Rothschild also commissioned computer engineers to operationalize a “smart contract” for each of the NFTs. A smart contract refers to a computer code that is also stored in the blockchain and that determines the name of each of the NFTs, constrains how they can be sold and transferred, and controls which digital files are associated with each of the NFTs.

              The smart contract and the NFT can be owned by two unrelated persons or entities, like in the case here, where Rothschild maintained the ownership of the smart contract but sold the NFT.

              “Individuals do not purchase NFTs to own a “digital deed” divorced to any other asset: they buy them precisely so that they can exclusively own the content associated with the NFT” (in this case the digital images of the MetaBirkin”), we can read in the Opinion and Order. The relevant consumers did not distinguish the NFTs offered by Rothschild from the underlying MetaBirkin image associated to the NFT.

              The question was whether or not there was a genuine artistic expression or rather an unlawful intent to cash in on an exclusive valuable brand name like HERMES.

              Mason Rothschild’s appeal to artistic freedom was not considered grounded since it came out that Rothschild was pursuing a commercial rather than an artistic end, further linking himself to other famous brands:  Rothschild remarked that “MetaBirkins NFTs might be the next blue chip”. Insisting that he “was sitting on a gold mine” and referring to himself as “marketing king”, Rothschild “also discussed with his associates further potential future digital projects centered on luxury projects such watch NFTs called “MetaPateks” and linked to the famous Swiss luxury watches Patek Philippe.

              TAKE AWAY: This is the first US decision on NFT and IP protection for trademarks.

              The debate (i) between the protection of the artistic work and the protection of the trademark or other industrial property rights or (ii) between traditional artistic work and subsequent digital reinterpretation by a third party other than the original author, will lead to other decisions (in Italy, we recall the injunction order issued on 20-7-2022 by the Court of Rome in favour of the Juventus football team against the company Blockeras, producer of NFT associated with collectible digital figurines depicting the footballer Bobo Vieri, without Juventus’ licence or authorisation). This seems to be a similar phenomenon to that which gave rise some 15 years ago to disputes between trademark owners and owners of domain names incorporating those trademarks. For the time being, trademark and IP owners seem to have the upper hand, especially in disputes that seem more commercial than artistic.

              For an assessment of the importance and use of NFT and blockchain in association also with IP rights, you can read more here.

              Riassunto

              Phil Knight, fondatore di Nike, iniziò la sua carriera nel 1964, importando negli USA il marchio giapponese Onitsuka Tiger, conquistando rapidamente una quota del 70% del mercato delle scarpe da corsa.
              Quando Knight seppe che Onitsuka stava cercando un altro distributore, creò il marchio Nike.
              Questo portò a due cause legali tra le aziende, risolte con accordo che consentì a Nike di divenire il marchio di abbigliamento sportivo di maggior successo al mondo.
              Questo articolo esamina in modo pratico gli insegnamenti che si possono trarre da questa controversia, come ad esempio come negoziare un accordo di distribuzione internazionale, come definire l’esclusività contrattuale e le clausole di fatturato minimo, la durata del contratto, la proprietà dei marchi, le clausole di risoluzione delle controversie e altro ancora.

              Di cosa parlo in questo articolo: 

              • La vertenza tra Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger e la nascita del marchio Nike
              • Come negoziare un contratto di distribuzione internazionale
              • L’esclusiva contrattuale in un accordo di distribuzione commerciale
              • Gli obiettivi del contratto di distribuzione in esclusiva
              • La durata del contratto di distribuzione all’estero
              • Il periodo di preavviso per il recesso  da un contratto di distribuzione commerciale
              • La gestione dello stock di prodotti dopo la cessazione del contratto
              • La titolarità dei marchi nella distribuzione commerciale
              • L’importanza della mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale
              • Le clausole di risoluzione delle controversie internazionali

              La vertenza Blue Ribbon vs Onitsuka Tiger e la nascita di Nike 

              Perché il marchio di abbigliamento sportivo più celebre al mondo è Nike e non Onitsuka Tiger? 

              Shoe Dog è la biografia del creatore di Nike, Phil Knight: per gli amanti del genere, ma non solo, il libro è veramente molto bello e ne consiglio la lettura. 

              phil

              Mosso dalla propria passione per la corsa e dall’intuizione che vi fosse uno spazio nel mercato americano delle scarpe da atletica, al tempo dominato da Adidas, Knight iniziò per primo, nel 1964, ad importare negli USA un brand di scarpe da atletica giapponese, Onitsuka Tiger, arrivando a conquistare in 6 anni una quota del 70% del mercato.

              La società fondata da Knight e dal suo ex-allenatore di atletica ai tempi del college, Bill Bowerman, si chiamava   Blue Ribbon Sports.

              La relazione commerciale tra Blue Ribbon-Nike e il produttore giapponese Onitsuka Tiger fu, sin dall’inizio, molto movimentata, nonostante le vendite delle scarpe negli USA andassero molto bene e le prospettive di crescita fossero positive.

              Quando, poco tempo dopo avere rinnovato il contratto con il produttore giapponese, Knight venne a sapere che Onitsuka stava cercando un altro distributore negli USA, temendo di trovarsi tagliato fuori dal mercato, decise di cercare un altro fornitore in Giappone e di creare un proprio marchio, Nike.

              niketiger

              Venuto a conoscenza del progetto Nike, il produttore giapponese contestò a Blue Ribbon la violazione del patto di non concorrenza, che vietava al distributore di importare altri prodotti fabbricati in Giappone, dichiarando l’immediata risoluzione del contratto per inadempimento di Blue Ribbon.

              A sua volta, Blue Ribbon sostenne che  l’inadempimento sarebbe stato di Onitsuka Tiger, che aveva iniziato ad incontrare altri potenziali distributori quando il contratto era ancora in corso di validità e l’andamento dell’attività molto positivo.

              Ne derivarono due cause, una in Giappone e una negli USA, che avrebbero potuto porre termine prematuramente alla storia di Nike.  Fortunatamente (per Nike) il Giudice americano decise a favore del distributore e la vertenza si chiuse con un accordo: Nike iniziava così il percorso che l’avrebbe portata 15 anni dopo a diventare il brand di articoli sportivi più importante al mondo.

              Vediamo cosa ci insegna la storia di Nike e quali errori è bene evitare in un contratto di distribuzione internazionale.

              Come negoziare un contratto di distribuzione commerciale internazionale 

              Come accade molto spesso a tanti imprenditori, Knight aveva negoziato il rinnovo dell’accordo di distribuzione dei prodotti Onitusuka negli USA da solo, senza l’assistenza di un avvocato.

              Nella sua biografia Knight scrive che si pentì subito di avere legato il futuro della sua società ad un accordo di poche righe, scritto frettolosamente al termine di una riunione in cui le parti si erano focailizzate sugli aspetti commerciali del rapporto.

              Il contratto prevedeva solamente il rinnovo del diritto di Blue Ribbon di distribuire i prodotti in esclusiva per gli USA per altri tre anni.

              Accade spesso che i contratti di distribuzione internazionale siano affidati ad accordi verbali o contratti molto semplici e di durata breve: la spiegazione che viene fornita, solitamente, è che così facendo si può testare la relazione commerciale sul campo, senza vincolarsi troppo alla controparte.

              Questo modo di fare, però, è sbagliato e pericoloso: il contratto non va visto come un onere o un vincolo, ma come una garanzia dei diritti di entrambe le parti. Non concludere un contratto scritto, o farlo in modo molto sbrigativo, significa lasciare senza patti chiari elementi fondamentali del futuro rapporto, come quelli che hanno portato alla vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger: obiettivi commerciali, investimenti, titolarità dei marchi.

              Se il contratto è internazionale l’esigenza di redigere un accordo completo ed equilibrato è ancor più forte, visto che in assenza di patti tra le parti, o in via integrativa a questi accordi, si applica una legge con la quale una delle parti non ha familiarità, che generalmente è quella del paese in cui opera il distributore.

              Nel caso  di Blue Ribbon si trattava di un accordo dal quale dipendeva l’esistenza stessa della società, motivo per il quale non coinvolgere un legale specializzato, che potesse  aiutare l’imprenditore ad individuare e negoziare le clausole importanti dell’accordo, era stato un comportamento molto imprudente.

              L’esclusiva territoriale, gli Obiettivi commerciali e i Target di fatturato minimo 

              Il primo motivo di contrasto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger fu la diversa valutazione dell’andamento delle vendite sul mercato USA.

              Onitsuka sosteneva che il fatturato fosse inferiore alle potenzialità del mercato USA, mentre secondo Blue Ribbon il trend di vendite era molto positivo, visto che sino a quel momento aveva raddoppiato ogni anno il fatturato, conquistando una fetta importante del mercato del settore.

              Venuta a conoscenza che Onituska stava valutando altri candidati per la distribuzione dei prodotti negli USA e temendo di trovarsi fuori dal mercato, Blue Ribbon preparò come Piano B il brand Nike: quando ciò venne scoperto dal produttore giapponese la situazione precipitò e sfociò nel contenzioso giudiziario tra le parti.

              La vertenza avrebbe forse potuto essere evitata se le parti avessero condiviso gli obiettivi commerciali e il contratto avesse previsto una clausola abbastanza standard negli accordi di distribuzione esclusiva, ossia un obiettivo minimo di vendita da parte del distributore (in inglese spesso definite “Minimum Turnover Clause”).

              In un contratto di distribuzione in esclusivail produttore concede al distributore una forte protezione territoriale  a fronte degli investimenti che il distributore pone in essere per sviluppare il mercato assegnatogli.

              Per bilanciare la concessione dell’esclusiva è normale che il produttore richieda al distributore il cosiddetto Fatturato Minimo Garantito o Target Minimo,  che deve essere raggiunto dal distributore ogni anno per mantenere lo status privilegiato che gli è stato concesso.

              In caso di mancato raggiungimento del Target Minimo, il contratto generalmente prevede che il produttore abbia il diritto di recedere dal contratto (nel caso di accordo a tempo indeterminato) o di non rinnovare l’accordo (se il contratto è a tempo determinato) o di revocare o restringere l’esclusiva territoriale.

              Nel contratto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger l’accordo non prevedeva alcun obiettivo (ed infatti per le parti si trovarono in disaccordo nel valutare i risultati del distributore) ed era stato appena rinnovato per tre anni, senza però che le parti avessero voluto, o saputo, fissare gli obiettivi del distributore. Un elemento cardine dell’accordo, quindi, era rimasto indeterminato.

              Come si possono prevedere gli obiettivi di fatturato minimo in un contratto pluriennale?

              In mancanza di elementi certi, spesso le parti si affidano a  meccanismi di incremento percentuale predeterminati: +10% il secondo anno, + 30% il terzo anni, + 50% il quarto, e così via.

              Il  problema di tale automatismo è che i target vengono concordati senza avere a disposizione i dati reali sulle potenzialità del prodotto sul mercato e sull’andamento delle vendite dei concorrenti e possono quindi rivelarsi molto distanti dalle attuali possibilità di vendita da parte del distributore.

              Contestare al distributore di non avere raggiunto il target del secondo o terzo anno in una congiuntura economica recessiva, ad esempio, o nel caso in cui siano arrivati sul mercato nuovi prodotti o concorrenti, sarebbero decisioni certamente discutibili e fonte di probabili divergenze.

              Meglio prevedere una procedura di determinazione consensuale dei target  di anno in anno, stabilendo che gli obiettivi verranno concordati tra le parti alla luce dei dati raccolti e dell’andamento delle vendite nei mesi precedenti, con un certo preavviso prima del termine dell’anno in corso.  In caso di mancato accordo sul nuovo target, il contratto può prevedere che si applichi il target dell’anno precedente, o il diritto di recesso in capo alle parti, con un certo preavviso.

              Va ricordato, d’altro canto, che  il target può anche essere utilizzato come incentivo positivo  per il distributore: si può prevedere, ad esempio, che se verrà raggiunto un certo fatturato ciò consentirà di rinnovare l’accordo per un periodo più lungo, o di estendere l’esclusiva territoriale, o di ottenere certi sconti o agevolazioni commerciali per l’anno successivo.

              Un ultimo consiglio è quello di ricordarsi che il contratto, una volta negoziato e concluso, va gestito nel tempo in maniera puntuale e corretta.

              Accade spesso che il produttore non contesti il mancato raggiungimento del target, o decida di farlo solo dopo un lungo periodo nel quale i target annuali non erano stati raggiunti, o non erano stati aggiornati, senza che ciò portasse ad alcuna conseguenza sul contratto.

              In tali casi è possibile che il distributore sostenga che vi era stata una rinuncia implicita ad azionare questa tutela contrattuale e quindi che il recesso non sia valido o il produttore non si sia comportato in buona fede.

              Per evitare dispute sul tema è opportuno ricordarsi di aggiornare ogni anno il Target e nel caso di mancato raggiungimento di comunicare al distributore l’intenzione del produttore di non avvalersi della clausola di salvaguardia, ricordando che rimane valida pro futuro.

              E’ anche importante prevedere espressamente nella clausola di Target Minimo che la non contestazione del mancato raggiungimento dell’obiettivo di un certo periodo non comporta una rinuncia tacita e quindi non viene meno il diritto di azionare la clausola di salvaguardia in futuro.

              Da ultimo, è molto utile redigere dei verbali (“meeting minutes”) delle riunioni in cui le parti discutono dell’andamento delle vendite, formulano eventuali contestazioni, concordano le conseguenze del mancato raggiungimento dei target e gli obiettivi futuri: a distanza di tempo, magari di anni, questi appunti saranno preziosi per ricostruire la volontà delle parti in un certo momento storico.

              Nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, le parti avrebbero potuto evitare il malinteso sull’andamento delle vendite scrivendo che il produttore si attendeva un certo miglioramento delle quote di mercato in certi stati della east coast nei successivi 48 mesi e in mancanza si sarebbe potuto muovere per ricercare un nuovo distributore per quella zona, da attivare dopo la scadenza del contratto.

              Il periodo di preavviso per il recesso da un contratto di distribuzione internazionale 

              L’altra contestazione insorta tra le parti era la  violazione di un patto di non concorrenza:  la vendita del brand Nike da parte di Blue Ribbon, quando il contratto vietava di vendere altre scarpe fabbricate in Giappone.

              Onitsuka Tiger sosteneva che Blue Ribbon avesse violato il patto di non concorrenza, mentre il distributore riteneva di non avere avuto altra possibilità, vista l’imminente decisione del produttore di terminare l’accordo.

              Questo tipo di vertenze si può evitare prevedendo con chiarezza un termine per il recesso (o per il mancato rinnovo): questo periodo ha la funzione fondamentale di permettere alle parti di prepararsi alla cessazione del rapporto e organizzare la propria attività dopo il termine.

              In particolare, proprio per evitare malintesi tipo quello insorto tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger, si può prevedere che in tale periodo  le parti avranno facoltà di prendere contatto con altri potenziali distributori e produttori, e che ciò non violi gli obblighi di esclusiva e di non concorrenza.

              Nel caso di Blue Ribbon, in realtà, il distributore era andato ben oltre la ricerca di un altro fornitore, posto che aveva iniziato a vendere i prodotti Nike quando il contratto con Onitsuka era ancora valido: questo comportamento rappresenta una violazione grave di un accordo di esclusiva e avrebbe potuto costare molto caro al distributore.

              Un aspetto particolare da considerare, a proposito del periodo di preavviso, è la durata:  quanto deve essere lungo il periodo di preavviso per essere considerato congruo? Nel caso di rapporti commerciali di lungo corso, è importante dare alla parte destinataria del recesso un  periodo di tempo sufficiente per riposizionarsi sul mercato, cercando distributori o fornitori alternativi oppure (come nel caso di Blue Ribbon/Nike) per creare e lanciare un proprio brand.

              L’altro elemento da valutare, al momento di comunicare il recesso, è che  il preavviso deve essere tale da consentire al distributore di ammortizzare gli investimenti fatti  per fare fronte alle proprie obbligazioni durante il contratto; nel caso di Blue Ribbon il distributore, su espressa richiesta del produttore, aveva aperto una serie di negozi mono-marca sia sulla West che sulla East Coast.

              Una chiusura del contratto poco tempo dopo il suo rinnovo e con un preavviso troppo breve non avrebbe consentito dal distributore di riorganizzare la rete di vendita con un prodotto sostituivo, forzando la chiusura dei negozi che fino a quel momento avevano venduto le scarpe giapponesi.

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              Generalmente è consigliabile prevedere un periodo di preavviso per il recesso di  almeno 6 mesi, ma nei contratti di distribuzione internazionale va prestata attenzione, oltre agli investimenti effettuati dalle parti, anche alla quota di fatturato del distributore rappresentata dai prodotti del produttore.

              Nel caso in cui questa quota nel tempo sia divenuta molto alta sarà difficile per il distributore trovare un prodotto alternativo in pochi mesi: le parti, in tal caso, dovranno tenere in considerazione l’evoluzione del rapporto, la situazione di mercato e le prospettive di riposizionamento del distributore e concordare un preavviso adeguato, anche più lungo di quello originariamente previsto nel contratto.

              E’ anche importante verificare se esistono norme specifiche sulla durata del periodo di preavviso per il recesso nella legge applicabile al contratto (si veda ad esempio, un approfondimento per la  distribuzione in Francia)  e cosa preveda, anche in mancanza di norme sul punto, la giurisprudenza in materia di recesso dai rapporti commerciali (in taluni casi il termine ritenuto congruo per un contratto di concessione di vendita di lunga durata può arrivare a 24 mesi).

              Infine, è normale che al momento della chiusura del contratto il distributore sia ancora in possesso di importanti  stock di prodotti:  ciò può essere problematico, ad esempio perché il distributore può porre in essere iniziative commerciali per liquidare lo stock (vendite flash o vendite tramite canali web con forti sconti) che possono andare in contrasto con le politiche commerciali del produttore e dei nuovi distributori.

              Per evitare queste situazioni una clausola che si può prevedere nel contratto di distribuzione è quella relativa al  diritto del produttore di riacquistare lo stock esistente al termine del contratto, fissando già il prezzo di riacquisto (ad esempio pari al prezzo di vendita al distributore per i prodotti della stagione in corso, con uno sconto del 30% per i prodotti della stagione precedente e con uno sconto più alto per i prodotti venduti più di 24 mesi prima).

              La titolarità dei marchi in un contratto di distribuzione internazionale 

              Nel corso del rapporto di distribuzione Blue Ribbon aveva creato un nuovo tipo di suola per le scarpe da corsa e coniato i marchi  Cortez e Boston  per i modelli di punta della collezione, che avevano riscosso un grande successo tra il pubblico, guadagnando una grande popolarità: al termine del contratto  entrambe le parti rivendicarono la titolarità dei marchi.

              Ciò può accadere di frequente in rapporti di distribuzione internazionale: il distributore registra il marchio del produttore nel paese in cui opera, per evitare che lo faccia qualche concorrente e per poter tutelare il marchio nel caso di vendita di prodotti contraffatti; oppure accade che il distributore, come nella vertenza di cui parliamo, collabori nella creazione di nuovi marchi destinati al suo mercato.

              Al termine del rapporto, in mancanza di un patto chiaro tra le parti, si può generare una vertenza come quella del caso Nike: chi è titolare, produttore o distributore?

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              Per evitare malintesi il primo consiglio è quello di  registrare il marchio in tutti i paesi in cui vengono distribuiti i prodotti,  e non solo: nel caso della Cina, ad esempio, la registrazione è bene farla comunque, per prevenire che terzi in mala fede si accaparrino il marchio (per un approfondimento  vedi questo post su Legalmondo).

              È poi opportuno prevedere nel contratto di distribuzione una clausola che vieta al distributore di registrare il marchio (o marchi simili)  nel paese in cui opera, con espressa previsione del diritto del produttore di chiederne il trasferimento nel caso in cui ciò accadesse.

              Una clausola di questo tipo avrebbe impedito l’insorgere della vertenza tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger.

              I fatti che raccontiamo risalgono ai primi anni ‘70: oggi oltre a fare chiarezza sulla titolarità del marchio e sulle modalità di utilizzo da parte del distributore e della sua rete commerciale è bene che il contratto ne disciplini anche l’uso del marchio e dei segni distintivi del produttore sui canali di comunicazione, in particolare i social media.

              È consigliabile si preveda in modo chiaro che il produttore è il titolare dei profili social media, dei contenuti che vengono creati, e dei dati generati dell’attività di vendita, marketing e comunicazione nel paese in cui opera il distributore, che ha solo la licenza di utilizzarli, in conformità alle istruzioni del titolare.

              Inoltre, è bene che l’accordo stabilisca come verrà utilizzato il marchio e la condivisione delle politiche di comunicazione e promozione delle vendite sul mercato, per evitare iniziative che possono dare effetti negativi o controproducenti.

              La clausola può anche essere rafforzata con la previsione di penali contrattuali  nel caso in cui, al termine dell’accordo, il distributore si rifiuti di trasferire il controllo dei canali digitali e dei dati generati nel corso dell’attività.

              La mediazione nei contratti di distribuzione commerciale internazionale 

              Un altro spunto interessante offerto dalla vicenda Blue Ribbon vs. Onitsuka Tiger è legato alla  gestione dei conflitti  nei rapporti di distribuzione internazionale: situazioni come quella che abbiamo visto possono essere risolte con efficacia grazie all’utilizzo della  mediazione.

              Si tratta di un tentativo di conciliazione del contenzioso, affidato ad un ente specializzato, con l’obiettivo di trovare un accordo bonario che consenta di evitare l’azione giudiziaria.

              La mediazione può essere prevista in contratto come primo step, prima dell’eventuale causa o arbitrato, oppure può essere iniziata volontariamente all’interno di una procedura giudiziaria o arbitrale già in corso.

              I vantaggi sono molteplici: il principale è la possibilità di trovare una soluzione commerciale che soddisfi gli interessi di entrambe le parti e possibilmente consenta la prosecuzione del rapporto, invece di limitare il confronto alle posizioni sulle quali le parti si sono arenate e che hanno portato al contenzioso.

              Un altro aspetto interessante della mediazione è quello di superare i conflitti personali: nel caso di Blue Ribbon vs. Onitsuka, ad esempio, un elemento decisivo per l’escalation dei problemi tra le parti era stato il difficile rapporto personale tra il CEO di Blue Ribbon e l’Export manager del produttore giapponese, aggravato da forti differenze culturali.

              La mediazione prevede l’introduzione di una figura terza, in grado di dialogare con le parti e di guidarle nell’esplorazione di soluzioni di reciproco interesse, che può rivelarsi decisiva per superare i problemi di comunicazione o le ostilità personali.

              Per chi fosse interessato all’argomento rimandiamo a questo ottimo approfondimento e al replay di un recente webinar sulla mediazione dei conflitti internazionali.

               Le modalità di risoluzione delle controversie

              Il contenzioso tra Blue Ribbon e Onitsuka Tiger portò le parti ad iniziare due cause parallele, una negli USA (iniziata dal distributore) e una in Giappone (radicata dal produttore).

              Ciò si rese possibile perché il contratto non prevedeva in modo espresso la modalità di risoluzione delle eventuali future controversie, generando così una situazione molto complicata, per di più su due fronti giudiziari in diversi paesi.

              Le clausole che stabiliscono quale legge si applica ad un contratto e quale sia la modalità di risoluzione delle vertenze vengono dette “midnight clauses”, perché spesso sono le ultime clausole del contratto, negoziate a notte fonda.

              Si tratta, in realtà, di clausole molto importanti, che devono essere definite in modo consapevole, per evitare soluzioni che siano inefficaci o controproducenti: rimando per un approfondimento a  questo articolo su Legalmondo.

              Come possiamo aiutarti

              La costruzione di un accordo di distribuzione commerciale internazionale è un investimento importante, perché fissa le regole del rapporto tra le parti per il futuro e mette a loro disposizione gli strumenti per gestire tutte le situazioni che si verranno a creare nella futura collaborazione.

              È fondamentale non solo negoziare e concludere un accordo corretto, completo ed equilibrato, ma anche saperlo gestire nel corso degli anni, soprattutto quando insorgono situazioni di contrapposizione.

              Legalmondo offre la possibilità di lavorare con legali esperti in materia di distribuzione commerciale internazionale in oltre 52 paesi: scrivici la tua esigenza.

               

              In this internet age, the limitless possibilities of reaching customers across the globe to sell goods and services comes the challenge of protecting one’s Intellectual Property Right (IPR). Talking specifically of trademarks, like most other forms of IPR, the registration of a trademark is territorial in nature. One would need a separate trademark filing in India if one intends to protect the trademark in India.

              But what type of trademarks are allowed registration in India and what is the procedure and what are the conditions?

              The Office of the Controller General of Patents, Designs and Trade Marks (the Registry) is the government body responsible for the administration of trademarks in India. When seeking trademark registration, you will need an address for service in India and a local agent or attorney. The application can be filed online or by paper at the Registry.  Based on the originality and uniqueness of the trademark, and subject to opposition or infringement claims by third parties, the registration takes around 18-24 months or even more.

              Criteria for adopting and filing a trademark in India

              To be granted registration, the trademark should be:

              • non-generic
              • non-descriptive
              • not-identical
              • non–deceptive

              Trademark Search

              It is not mandatory to carry out a trademark search before filing an application. However, the search is recommended so as to unearth conflicting trademarks on file.

              How to make the application?

              One can consider making a trademark application in the following ways:

              • a fresh trademark application through a local agent or attorney;
              • application under the Paris Convention: India being a signatory to the Paris Convention for the Protection of Industrial Property, a convention application can be filed by claiming priority of a previously filed international application. For claiming such priority, the applicant must file a certified copy of the priority document, i.e., the earlier filed international application that forms the basis of claim for priority in India;
              • application through the Madrid Protocol: India acceded to the Madrid Protocol in 2013 and it is possible to designate India in an international application.

              Objection by the Office – Grounds of Refusal

              Within 2-4 months from the date of filing of the trademark application (4-6 months in the case of Madrid Protocol applications), the Registry conducts an examination and sometimes issues an office action/examination report raising objections. The applicant must respond to the Registry within one month. If the applicant fails to respond, the trademark application will be deemed abandoned.

              A trademark registration in India can be refused by the Registry for absolute grounds such as (i) the trademark being devoid of any distinctive character (ii) trademark consists of marks that designate the kind, quality, quantity values, geographic origins or time or production of the goods or services (iii) the trademark causes confusion or deceives public. A relative ground for refusal is generally when a trademark is similar or deceptively similar to an earlier trademark.

              Objection Hearing

              When the Registry is not satisfied with the response, a hearing is scheduled within 8-12 months. During the hearing, the Registry either accepts or rejects the registration.

              Publication in TM journal

              After acceptance for registration, the trademark will be published in the Trade Marks Journal.

              Third Party Opposition

              Any person can oppose the trademark within four months of the date of publication in the journal. If there is no opposition within 4-months, the mark would be granted protection by the Registry. An opposition would lead to prosecution proceedings that take around 12-18 months for completion.

              Validity of Trademark Registration

              The registration dates back to the date of the application and is renewable every 10 years.

              “Use of Mark” an important condition for trademark registration

              • “First to Use” Rule over “First-to-File” Rule: An application in India can be filed on an “intent to use” basis or by claiming “prior use” of the trademark in India. Unlike other jurisdictions, India follows “first to use” rule over the “first-to-file” rule. This means that the first person who can prove significant use of a trade mark in India will generally have superior rights over a person who files a trade mark application prior but with a later user date or acquires registration prior but with a later user date.
              • Spill-over Reputation considered as Use: Given the territorial protection granted for trademarks, the Indian Trademark Law protects the spill-over reputation of overseas trademark even where the trademark has not been used and/or registered in India. This is possible because knowledge of the trademark in India and the reputation acquired through advertisements on television, Internet and publications can be considered as valid proof of use.

              Descriptive Marks to acquire distinctiveness to be eligible for registration

              Unlike in the US, Indian trademark law does not generally permit registration of a descriptive trademark. A descriptive trademark is a word that identifies the characteristics of the product or service to which the trademark pertains. It is similar to an adjective. An example of descriptive marks is KOLD AND KREAMY for ice cream and CHOCO TREAT in respect of chocolates. However, several courts in India have interpreted that descriptive trademark can be afforded registration if due to its prolonged use in trade it has lost its primary descriptive meaning and has become distinctive in relation to the goods it deals with. Descriptive marks always have to be supported with evidence (preferably from before the date of application for registration) to show that the trademark has acquired a distinctive character as a result of the use made of it or that it was a well-known trademark.

              Acquired distinctiveness a criterion for trademark protection

              Even if a trademark lacks inherent distinctiveness, it can still be registered if it has acquired distinctiveness through continuous and extensive use. All one has to prove is that before the date of application for registration:

              • the trademark has acquired a distinctive character as a result of use;
              • established a strong reputation and goodwill in the market; and
              • the consumers relate only to the trademark for the respective product or services due to its continuous use.

              How can one stop someone from misusing or copying the trademark in India?

              An action of passing off or infringement can be taken against someone copying or misusing a trademark.

              For unregistered trademarks, a common law action of passing off can be initiated. The passing off of trademarks is a tort actionable under common law and is mainly used to protect the goodwill attached to unregistered trademarks. The owner of the unregistered trademark has to establish its trademark rights by substantiating the trademark’s prior use in India or trans-border reputation in India and prove that the two marks are either identical or similar and there is likelihood of confusion.

              For Registered trademarks, a statutory action of infringement can be initiated. The registered proprietor only needs to prove the similarity between the marks and the likelihood of confusion is presumed.

              In both the cases, a court may grant relief of injunction and /or monetary compensation for damages for loss of business and /or confiscation or destruction of infringing labels etc. Although registration of trademark is prima facie evidence of validity, registration cannot upstage a prior consistent user of trademark for the rule is ‘priority in adoption prevails over priority in registration’.

              Appeals

              Any decision of the Registrar of Trademarks can be appealed before the high courts within three months of the Registrar’s order.

              It’s thus preferable to have a strategy for protecting trademarks before entering the Indian market. This includes advertising in publications and online media that have circulation and accessibility in India, collating all relevant records evidencing the first use of the mark in India, taking offensive action against the infringing local entity, or considering negotiations depending upon the strength of the foreign mark and the transborder reputation it carries.

              Summary – The company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfeiter enforceable in different, or even all, Countries of the European Union.


              Italian companies are famous all over the world thanks to their creative abilities regarding both industrial inventions and design: in fact, they often make important economic investments in order to develop innovative solutions for the products released on the market.

              Such investments, however, must be effectively protected against cases of counterfeiting that, unfortunately, are widely spread and ever more realizable thanks to the new technologies such as the e-commerce. Companies must be very careful in protecting their own products, at least in the whole territory of the European Union, since counterfeiting inevitably undermines the efforts made for the research of an original product.

              In this respect the content of a recent judgement issued by the Court of Milan, section specialized in business matters, No. 2420/2020, appears very significant since it shows that it is possible and necessary, in case of counterfeiting (in this case the matter is the counterfeiting of a Community design) to promptly take a legal action, that is to start a lawsuit to the competent Court specialized in business matters.

              The Court, by virtue of the EU Regulation No. 6/2002, will issue an order (an urgent and protective remedy ante causam or a judgement at the end of the case) effective in the whole European territory so preventing any extra UE counterfeiter from marketing, promoting and advertising a counterfeited product.

              The Court of Milan, in this specific case, had to solve a dispute aroused between an Italian company producing a digital flowmeter, being the subject of a Community registration, and a competitor based in Hong Kong. The Italian company alleged that the latter had put on the European market some flow meters in infringement of a Community design held by the first.

              First of all, the panel of judges effected a comparison between the Community design held by the Italian company (plaintiff) and the flow meter manufactured and distributed by the Hong Kong company (defendant). The judges noticed that the latter actually coincided both for dimensions and proportions with the first so that even an expert in the field (the so-called informed user) could mistake the product of the defendant company with that of the plaintiff company owner of the Community design.

              The Court of Milan, in its capacity as Community designs court, after ascertaining the counterfeiting, in the whole European territory, carried out by the defendant at the expense of the plaintiff, with judgement No. 2420/2020 prohibited, by virtue of articles 82, 83 and 89 of the EU Regulation No. 6/2002, the Hong Kong company to publicize, offer for sale, import and market, by any means and methods, throughout the European Union, even through third parties, the flow meter subject to the present judgement, with any name if presenting similar characteristics.

              The importance of this judgement lies in its effects spread all over the territory of the European Union. This is not a small thing since the company that incurs into a counterfeiting of its Community design shall not start as many disputes as are the countries where the infringement has been carried out: it will be sufficient for this company to start a lawsuit in just one court of the Union, in its capacity as Community design court, and get a judgement against a counterfactor who makes an illicit in different, or even all, Countries of the European Union.

              Said judgement will be even more effective if we consider that, by virtue of the UE Customs Regulation No. 608/2013, the company will be able to communicate the existence of a counterfeited product to the customs of the whole European territory (through a single request filed with the customs with the territorial jurisdiction) in order to have said products blocked and, in case, destroyed.

              Riassunto – Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende su una piattaforma online i prodotti con il suo marchio? La questione è stata analizzata nella sentenza C‑567/18 del 2 aprile 2020, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha confermato che le piattaforme che forniscono il servizio di deposito di prodotti (Amazon Marketplace, nel caso di specie) che violano un diritto di proprietà intellettuale non sono responsabili per la violazione di tale diritto, salvo mettano in commercio i prodotti per conto proprio o siano a conoscenza della violazione. Al contrario, sono direttamente responsabili le piattaforme (come Amazon Retail) che partecipano alla distribuzione o rivendono direttamente i prodotti.


              Coty – azienda che distribuisce profumi ed è titolare di una licenza europea sul marchio “Davidoff” – rilevava che sul Marketplace di Amazon dei venditori terzi offrivano in vendita dei profumi recanti il marchio “Davidoff Hot Water”, immessi in commercio nell’Unione Europea senza il suo consenso.

              Dopo aver raggiunto un accordo con uno dei venditori, Coty agiva giudizialmente al fine di intimare ad Amazon di astenersi dallo stoccare o spedire tali profumi, a meno che gli stessi non fossero stati immessi in commercio nell’Unione con il suo consenso. Sia il tribunale di primo grado, che la Corte d’Appello successivamente adita respingevano l’azione proposta da Coty, che proponeva ricorso per cassazione (“Revision”), a seguito del quale la questione veniva rimessa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

              Cos’è il Principio di esaurimento del Marchio

              Il principio di esaurimento comunitario è un principio previsto dal diritto dell’Unione Europea, secondo il quale, una volta messo in commercio un bene nel territorio dell’Unione Europea, il titolare del diritto di proprietà industriale su quel bene specifico non può più limitarne l’uso da parte di terzi.

              Questo principio ha efficacia soltanto se l’immissione del bene (il riferimento è al singolo prodotto) sul mercato viene effettuata direttamente dal titolare del diritto, o con il suo consenso (per esempio tramite un operatore che ne detiene una licenza).

              Al contrario, se il bene viene immesso sul mercato da soggetti terzi senza il consenso del titolare, quest’ultimo potrà – esercitando i diritti di privativa sul marchio stabiliti dall’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001 – vietare l’uso del marchio per l’immissione in commercio dei prodotti.

              Siccome i profumi in questione erano stati immessi sul mercato senza il consenso di Coty, questa poteva legittimamente impedire al venditore terzo di usare il marchio “Davidoff” per la loro commercializzazione. Con l’azione giudiziaria proposta dinanzi alle corti tedesche e sfociata nella pronuncia della Corte di Giustizia UE, Coty ha cercato di far valere questo suo diritto anche nei confronti di Amazon, considerandola anch’essa utilizzatrice del marchio e, pertanto, responsabile della violazione.

              Il ruolo di Amazon

              La soluzione del caso ruota attorno al ruolo di Amazon.

              La piattaforma, seppur fornisca agli utenti un motore di ricerca unico, ospita al suo interno due canali di vendita, profondamente diversi. Amazon Retail è il canale attraverso cui il cliente conclude gli acquisti direttamente con la società Amazon, la quale opera come rivenditrice dei prodotti previamente acquistati dai fornitori terzi.

              Su Amazon Marketplace, invece, vengono esposti prodotti di venditori terzi, che vengono acquistati dal cliente finale attraverso un contratto stipulato direttamente con il venditore, sul quale Amazon prende una percentuale a titolo di commissione, mentre il venditore si assume la responsabilità della vendita e gestisce in autonomia i prezzi dei prodotti.

              Secondo i due giudici di merito tedeschi che hanno rigettato in prima e seconda istanza le richieste di Coty, Amazon Marketplace svolge essenzialmente la funzione di depositario, che non fornisce alcuna assistenza all’offerta di vendita, alla vendita e all’immissione in commercio dei prodotti che ha in deposito.

              Coty, al contrario, sostiene che Amazon Marketplace, offrendo svariati servizi nell’ambito dell’immissione in commercio dei prodotti (tra cui: comunicazione con i potenziali clienti ai fini della vendita dei prodotti; fornitura della piattaforma attraverso la quale viene concluso il contratto di vendita e promozione continuativa dei prodotti, sia sul proprio sito web, sia mediante annunci pubblicitari nel motore di ricerca Google), possa essere considerata come “utilizzatrice” del marchio, ai sensi dell’art. 9, par. 3 del Regolamento UE 2017/1001.

              La decisione della Corte di Giustizia UE

              Nelle conclusioni depositate nel novembre 2019, l’Avvocato Generale Campos Sanchez-Bordona aveva suggerito alla Corte di distinguere tra i meri depositari dei beni, da considerare come non “utilizzatori” del marchio ai fini del Regolamento 2017/1001; e i soggetti che – oltre a fornire il servizio di deposito –partecipano attivamente alla distribuzione dei prodotti. Questi ultimi, alla luce dell’art. 9, par. 3, lett. b) del Regolamento 2017/1001, dovrebbero essere considerati come “utilizzatori” del marchio, e pertanto direttamente responsabili in caso di violazioni.

              Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia tedesca), però, nel sottoporre il quesito alla CGUE si era già parzialmente dato la risposta, definendo Amazon Marketplace come un soggetto che si limita “al magazzinaggio dei prodotti di cui trattasi, senza averli offerti in vendita o averli immessi in commercio”, entrambe operazioni svolte unicamente dal venditore.

              La Corte di Giustizia UE ha deciso sulla base di alcuni propri precedenti, in cui aveva già affermato che:

              • il concetto di “utilizzo” implica, quanto meno, l’uso del segno nell’ambito della comunicazione commerciale. Un soggetto, quindi, può permettere ai propri clienti di fare uso del marchio, senza essere configurato esso stesso “utilizzatore” (v. Google vs Louis Vuitton, da C‑236/08 a C‑238/08, punto 56).
              • Con riferimento alle piattaforme di commercio on-line, l’uso del segno identico o simile a un marchio viene posto in essere dai clienti-venditori, e non dal gestore della piattaforma (v. L’Oréal vs eBay, C‑324/09, punto 103).
              • Il prestatore di servizi che esegue semplicemente una parte tecnica del processo di produzione del prodotto finale, non può essere qualificato come “utilizzatore” di eventuali segni presenti sui prodotti finali (v. Frisdranken vs Red Bull, C‑119/10, punto 30. Frisdranken era un’impresa la cui attività principale consisteva nel riempimento di lattine, fornite da un terzo, già provviste di segni simili a marchi registrati).

              Sulla scorta di questi precedenti e della qualifica di Amazon Marketplace fornita dal giudice del rinvio, la Corte ha sancito che un soggetto che tenga in deposito per conto di un terzo dei prodotti che violano un diritto di marchio, se non è a conoscenza di tale violazione e non li mette in offre in vendita né li immette in commercio, non sta facendo uso del segno e, pertanto, non è responsabile nei confronti del titolare dei diritti su quel marchio.

              Conclusioni

              Dopo che in passato Coty era stata protagonista di una sentenza storica in materia (C-230/16 – qui il commento), in questo caso la decisione della Corte di Giustizia UE ha confermato lo status quo, lasciando però aperta la porta ad un cambiamento in un futuro prossimo.

              Alcune impressioni sulla sentenza, prima di passare ad alcuni consigli pratici:

              • La CGUE non ha definito in termini positivi i criteri per valutare se una piattaforma online svolga attività sufficiente per essere considerata utilizzatrice del segno (e quindi responsabile per l’eventuale violazione del marchio registrato). La ragione di questa scelta, probabilmente, sta nella circostanza che i criteri dettati avrebbero potuto essere applicati (a ben vedere anche contro le diverse società del gruppo Amazon) a macchia di leopardo dai diversi giudici nazionali degli Stati Membri, pregiudicando l’applicazione uniforme del diritto europeo.
              • Un’eventuale pronuncia in senso opposto della CGUE avrebbe avuto un impatto dirompente non solo sul Marketplace di Amazon, ma su tutti gli operatori online, perché li avrebbe resi direttamente responsabili delle violazioni di diritti di proprietà intellettuale posti in essere da soggetti terzi.
              • Nel caso in cui i prodotti oggetto della sentenza fossero stati venduti attraverso Amazon Retail, non vi sarebbe stato alcun dubbio sulla responsabilità di Amazon: attraverso questo canale, infatti, le vendite sono concluse direttamente tra Amazon e il cliente finale, a differenza di quanto avviene attraverso Amazon Marketplace.
              • La Corte non ha valutato se: (i) Amazon potesse essere considerata indirettamente responsabile ai sensi dell’ art. 14, paragrafo 1, della Direttiva UE 2000/31, in quanto «host» che – pur essendo al corrente dell’attività illecita – non l’ha impedita; (ii) ai sensi dell’articolo 11, della Direttiva UE 2004/48, Coty avrebbe potuto agire nei suoi confronti, in quanto intermediario i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto di proprietà intellettuale. Non è quindi da escludere che Amazon possa essere ritenuta (indirettamente) responsabile per le violazioni commesse,anche sul Marketplace: questo aspetto dovrà essere approfondito caso per caso.

              Consigli pratici

              Cosa può fare il titolare (o licenziatario) di un marchio che trovi su una piattaforma online prodotti a proprio marchio rivenduti da terzi non autorizzati?

              1. Raccogliere quante più prove possibili della violazione in atto: la dimostrazione della violazione è uno degli aspetti più problematici dei giudizi di aventi ad oggetto la violazione di diritti di proprietà industriale.
              2. Rivolgersi ad un legale esperto in materia per inviare una diffida al venditore non autorizzato, chiedendo la rimozione dei prodotti dalla piattaforma e il risarcimento dei danni subiti.
              3. In caso di mancata rimozione dei prodotti dal marketplace, potrà valutare – sempre affidandosi ad un legale – la migliore forma per avanzare le medesime richieste anche in via giudiziale.
              4. Nonostante alla luce della pronuncia appena vista la piattaforma online (a meno che non svolga un ruolo attivo nella rivendita dei beni) continui a non essere direttamente responsabile, si suggerisce di valutare l’invio della diffida anche alla piattaforma, per aumentare la pressione sul venditore non autorizzato.
              5. L’invio della diffida anche alla piattaforma online potrà servire anche per sostenere – specialmente in caso di reiterazione della violazione – una sua responsabilità indiretta per omissione nella vigilanza che, come visto al punto 4) del precedente elenco, non è stata esclusa dalla Corte di Giustizia UE.

              Quick summary – Poland has recently introduced tax incentives which aim at promoting innovations and technology. The new support instrument for investors conducting R&D activity is named «IP Box» and allows for a preferential taxation of qualified profits made on commercialization of several types of qualified property rights. The preferential income tax rate amounts to 5%. By contrast, the general rate is in most cases 19%.


              The Qualified Intellectual Property Rights

              The intellectual property rights which may be the source of the qualified profit subject the preferential taxation are the following:

              • rights to an invention (patents)
              • additional protective rights for an invention
              • rights for the utility model
              • rights from the registration of an industrial design
              • rights from registration of the integrated circuit topography
              • additional protection rights for a patent for medicinal product or plant protection product
              • rights from registration of medicinal or veterinary product
              • rights from registration of new plant varieties and animal breeds, and
              • rights to a computer program

              The above catalogue of qualified intellectual property rights is exhaustive.

              Conditions for the application of the Patent Box

              A taxpayer may apply the preferential 5% rate on the condition that he or she has created, developed or improved these rights in the course of his/her R&D activities. A taxpayer may create intellectual property but it may also purchase or license it on the exclusive basis, provided that the taxpayer then incurs costs related to the development or improvement of the acquired right.

              For example an IT company may create a computer program itself within its R&D activity or it may acquire it from a third party and develop it further. Future income received as a result of commercialization of this computer program may be subject to the tax relief.

              The following kinds of income may be subject to tax relief:

              • fees or charges arising from the license for qualified intellectual property rights
              • the sale of qualified intellectual property rights
              • qualified intellectual property rights included in the sale price of the products or services
              • the compensation for infringement of qualified intellectual property rights if obtained in litigation proceedings, including court proceedings or arbitration.

              How to calculate the tax base

              The preferential tax rate is 5% on the tax base. The latter is calculated according to a special formula: the total income received from a particular IP is reduced by a significant part of expenditures on the R&D activities as well as on the creation, acquisition and development of this IP. The appropriate factor, named «nexus», is applied to calculate the tax base.

              The tax relief is applicable at the end of the calendar year. This means that during the year the income tax advance payments are due according to the regular rate. Consequently in many instances the taxpayer will recover a part of the tax already paid during the previous calendar year.

              It is advisable that the taxpayer applies for the individual tax ruling to the competent authority in order to receive a binding confirmation that its particular IP is eligible for the tax reduction.

              It is also crucial that the taxpayer keeps the detailed accounting records of all R&D activities as well as the income and the expenses related to each R&D project (including employment costs). The records should reflect the link of incurred R&D costs with the income from intellectual property rights.

              Obligations related to the application of the tax relief

              In particular such a taxpayer is obliged to keep records which allow for monitoring and tracking the effects of research and development works. If, based on the accounting records kept by a taxpayer, it is not possible to determine the income (loss) from qualified intellectual property rights, the taxpayer will be obliged to pay the tax based on general rules.

              The tax relief may be applied throughout the duration of the legal protection of eligible intellectual property rights.In case if a given IP is subject to notification or registration procedure (the expectative of obtaining a qualified intellectual property right), a taxpayer may benefit from tax relief from the moment of filing or submitting an application for registration. In case of withdrawal of the application, refusal of registration or rejection of the application , the amount of relief will have to be returned.

              The above tax relief combined with a governmental programme of grant aid for R&D projects make Polish research, development and innovation environment more and more beneficial for investors.

              Startups and Trademarks – Get it right from the Start

              As a lawyer, I have been privileged to work closely with entrepreneurs of all backgrounds and ages (not just young people, a common stereotype on this field) and startups, providing legal advice on a wide range of areas.

              Helping them build their businesses, I have identified a few recurrent mistakes, most of them arising mainly from the lack of experience on dealing with legal issues, and some others arising from the lack of understanding on the value added by legal advice, especially when we are referring to Intellectual Property (IP).

              Both of them are understandable, we all know that startups (specially on an early stage of development) deal with the lack of financial resources and that the founders are pretty much focused on what they do best, which is to develop their own business model and structure, a new and innovative business.

              Nevertheless it is important to stress that during this creation process a few important mistakes may happen, namely on IP rights, that can impact the future success of the business.

              First, do not start from the end

              When developing a figurative sign, a word trademark, an innovative technology that could be patentable or a software (source code), the first recommended step is to look into how to protect those creations, before showing it to third parties, namely investors or VC’s. This mistake is specially made on trademarks, as many times the entrepreneurs have already invested on the development of a logo and/or a trademark, they use it on their email signature, on their business presentations, but they have never registered the trademark as an IP right.

              A non registered trademark is a common mistake and opens the door to others to copy it and to acquire (legally) rights over such distinctive sign. On the other hand, the lack of prior searches on preexisting IP rights may lead to trademark infringement, meaning that your amazing trademark is in fact infringing a preexisting trademark that you were not aware of.

              Second, know what you are protecting

              Basic mistake arises from those who did registered the trademark, but in a wrong or insufficient way: it is very common to see startups applying for a word trademark having a figurative element, when instead a trademark must be protected “as a whole” with their both signs (word and figurative element) in order to maximize the range of legal protection of your IP right.

              Third, avoid the “classification nightmare”

              The full comprehension and knowledge of the goods and services for which you apply for a trademark is decisive. It is strongly advisable for startup to have (at least) a medium term view of the business and request, on the trademark application, the full range of goods and services that they could sell or provide in the future and not only a short term view. Why? Because once the trademark application is granted it cannot be amended or added with additional goods and services. Only by requesting a new trademark application with all the costs involved in such operation.

              The correct classification is crucial and decisive for a correct protection of your IP asset, especially on high technological startups where most of the time the high added value of the business arises from their IP.

              On a brief, do not neglect IP, before is too late.

              The author of this post is Josè Varanda

              Il codice della proprietà intellettuale, all’art. 20, prevede che il titolare del marchio d’impresa ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, l’uso di un segno:

              1. identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
              2. identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
              3. identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.

              Analoghe disposizioni si rinvengono nell’art. 9, n. 2 nel Regolamento (UE) 2017/1001 sul Marchio dell’Unione Europea anche se in questo caso si parla di marchi che godono di notorietà.

              Le prime due ipotesi riguardano la maggior parte dei marchi e sono tese dirimere il conflitto tra due segni che siano identici per prodotti o servizi identici (sub a), cosiddetta doppia identità, oppure tra due marchi che siano identici o simili per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico (sub b).

              Per “affinità” si intende una similarità merceologica tra i prodotti o i servizi (ad esempio tra calze e filati) oppure un collegamento tra i bisogni che i prodotti o i servizi intendono soddisfare (come spesso accade nel settore della moda, in cui è abituale ad esempio che lo stesso produttore di calzature offra in vendita anche cinture). Non a caso, benché la rilevanza sia amministrativa e non volta delineare l’affinità, al momento del deposito della domanda di registrazione di un marchio, il richiedente deve indicare i prodotti e/o dei servizi per i quali vuole ottenere la protezione tra i beni ed i servizi presenti nella Classificazione internazionale di Nizza di cui al relativo accordo del 1957 (giunto oggi all’undicesima edizione del 01.01.2019). Anzi, a seguito del leading case “IP Translator” (Sentenza della Corte di Giustizia UE del 19 giugno 2012, C-307/10), il richiedente è tenuto ad individuare, all’interno di ciascuna classe, i singoli beni o servizi per i quali invoca la protezione, in modo da delimitare correttamente la tutela del marchio.

              Al di là dei suddetti marchi ordinari, vi sono appunto alcuni segni che, col tempo, hanno acquisito una certa notorietà per i quali, come previsto dall’ipotesi sub c), la protezione si estende anche ai prodotti e/o ai servizi che non sono affini (e tanto meno identici) a quelli per il quale il marchio è registrato.

              La ratio sottesa a questa alla suddetta norma è quella di contrastare il fenomeno contraffattivo dovuto all’indebita appropriazione di pregi. Nel settore della moda, ad esempio, si assiste di sovente a condotte contraffattive volte a sfruttare in modo parassitario l’avviamento commerciale dei brands più blasonati al fine di indurre il consumatore all’acquisto del prodotto alla luce delle maggiori qualità – in senso lato – del prodotto.

              La protezione accordata dalla norma in parola mira quindi a tutelare anche il cosiddetto selling power del marchio, inteso come elevata capacità di vendita dovuta alla funzione evocativa e suggestiva del marchio, anche in ragione degli ingenti investimenti pubblicitari effettuati dal titolare del marchio stesso, ed in grado di travalicare i limiti dell’affinità del settore merceologico a cui appartiene il marchio.

              Si parla infatti di tutela “ultra-merceologica – che prescinde dal rischio di confusione di cui all’ipotesi sub lettera b) – invocabile allorché sussistano alcuni presupposti.

              In primo luogo, il titolare ha l’onere di provare che il proprio segno gode di rinomanza, sia a livello territoriale che con riferimento al pubblico interessato.

              Ma cosa si intende per rinomanza e quali sono i requisiti? Nel silenzio delle norme, la giurisprudenza comunitaria, con la nota sentenza General Motors (Corte di Giustizia CE, 14 settembre 1999, C-375/97) l’ha definita come “l’attitudine del segno a comunicare un messaggio al quale sia possibile agganciarsi anche in difetto di una confusione sull’origine” sancendo che la tutela possa essere accordata se il marchio è “conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti”.

              Secondo la Corte, tra i parametri che il giudice nazionale deve tenere in considerazione per determinare il grado di notorietà di un marchio, rientrano la quota di mercato, l’intensità, l’ambito geografico e la durata del suo uso, nonché gli investimenti realizzati dall’impresa per promuoverlo.

              Naturalmente, maggiore è la notorietà del marchio, maggiore sarà l’estensione della tutela sino a ricomprendere ambiti merceologici sempre meno affini.

              Il pubblico di riferimento, continua la Corte “è quello interessato a tale marchio d’impresa, vale a dire, secondo il prodotto o il servizio posto in commercio, il grande pubblico ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio un determinato ambiente professionale”.

              La rinomanza, inoltre, deve possedere anche una certa estensione territoriale e, in tal senso, la suddetta pronuncia ha precisato che il requisito è soddisfatto nel caso in cui la notorietà sia in una parte sostanziale dello Stato membro, tenendo conto sia delle dimensioni della zona geografica interessata che della quantità di persone ivi presenti.

              Per quanto concerne il marchio EU, la Corte di Giustizia, con la sentenza Pago International (Corte di Giustizia CE, 6 ottobre 2009,C‑301/07) ha statuito che il marchio deve essere conosciuto “da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi contraddistinti dal marchio, in una parte sostanziale del territorio della Comunità” e che, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, “l’intero territorio di uno Stato membro” (nella fattispecie si trattava dell’Austria) “può essere considerato parte sostanziale del territorio della Comunità”. Tale interpretazione, a ben vedere, è conseguenza del fatto che la protezione di un marchio UE si estende a tutto il territorio dell’Unione Europea.

              Affinché il marchio rinomato possa essere tutelato non è necessaria una somiglianza tra i segni tale da ingenerare un rischio di confusione. Tuttavia, ci deve essere un nesso (concetto ripreso più volte dalla giurisprudenza europea e da quella nazionale) tra i due marchi nel senso che il marchio posteriore deve evocare quello anteriore nella mente del consumatore medio.

              Per poter beneficiare della tutela ultra-merceologica, le suddette norme richiedono che il titolare del marchio debba essere in grado di fornire adeguata prova del fatto che l’appropriazione del segno, da parte di terzi, costituisca indebito vantaggio per questi o, in alternativa, che arrechi un pregiudizio al titolare stesso. Naturalmente il presunto contraffattore potrà provare il giusto motivo che, come tale, può costituire un’esimente idonea a vincere la protezione accordata.

              Peraltro, il titolare del marchio non è costretto a provare una lesione effettiva, essendo sufficiente, per giurisprudenza consolidata, “un rischio futuro non ipotetico di indebito vantaggio o di pregiudizio”, benché serio e concreto.

              Il pregiudizio potrebbe riguardare il carattere distintivo del marchio anteriore e si verifica, “quando risulta indebolita l’idoneità di tale marchio ad identificare come provenienti dal suo titolare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato e viene utilizzato, per il fatto che l’uso del marchio posteriore fa disperdere l’identità del marchio anteriore e dell’impresa corrispondente nella mente del pubblico.”

              Parimenti, il pregiudizio potrebbe anche concernere la rinomanza e si verifica quando l’uso per i prodotti o i servizi offerti dal terzo possono essere percepiti dal pubblico in modo tale che il potere del marchio che gode di rinomanza ne risulti compromesso. Ciò avviene sia nel caso in cui si abbia un uso osceno o degradante del marchio anteriore, che nel caso in cui il contesto nel quale viene inserito il marchio posteriore risulti incompatibile con l’immagine che il marchio rinomato ha costruito nel tempo, magari attraverso costose campagne marketing.

              L’indebito vantaggio ricorre, infine, quando il terzo, aggancia parassitariamente il proprio marchio alla notorietà o alla distintività del marchio rinomato, traendone benefici di varia natura.

              Uno degli esempi più recenti di tutela ultra-merceologica ha visto coinvolte Barilla e un’azienda tessile per aver quest’ultima commercializzato cuscini che riproducevano le forme di alcuni dei biscotti più famosi, contrassegnandoli con i medesimi marchi dapprima e poi, a seguito di diffida, con i nomi degli stessi biscotti con l’aggiunta del suffisso “-oso” (“Abbraccioso”, “Pandistelloso”, ecc.). Stante la rinomanza acquisita dai marchi della nota azienda alimentare, i relativi marchi sono stati riconosciuti meritevoli della suddetta tutela estesa a servizi e prodotti non affini. Il Tribunale di Milano, infatti, con sentenza del 25 gennaio 2018, ha statuito, tra l’altro, che la condotta perpetrata dall’azienda tessile, attribuendo ai propri prodotti i pregi di quelli della Barilla, abbia configurato un’ipotesi di concorrenza sleale parassitaria per appropriazione di pregi, ai sensi dell’art. 2598 c.c. La notorietà̀ dei marchi denominativi e figurativi registrati dalla Barilla, in sostanza, ha consentito di tutelare anche prodotti non affini, stante l’indebito vantaggio derivante dalla rinomanza del segno altrui.

              L’autore di questo articolo è Giacomo Gori.

              Mattia Dalla Costa

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